martedì 8 dicembre 2015

La casa della nonna

 Amanda ricevette la lettera in una fredda giornata di dicembre. Se lo sentiva già da qualche tempo, come un callo dolorante che preannuncia la pioggia. Decise di non aprirla immediatamente, ma di lasciarla sul ripiano, vicino al lavandino, in attesa che il caffè venisse su nella moka.
Ormai aveva compiuto settant’anni da più di una settimana e ancora non aveva festeggiato. Non lo avrebbe fatto, naturalmente, come ogni anno da quando suo marito se n’era andato di casa.
Erano stati belli i primi anni insieme: lui, con il suo studio di architettura, il grande appartamento al settimo piano, con terrazzo e mansarda, gli amici eleganti e le cene prestigiose. Per i loro compleanni, che cadevano a distanza di quasi sei mesi l’uno dall’altro, andavano in ristoranti sempre diversi, come se fosse sempre la prima volta.
La sera lui le raccontava la sua giornata di lavoro e a lei piaceva ascoltare i racconti degli strampalati e danarosi clienti, con le loro richieste assurde. Lui parlava molto, durante le loro intime cene in casa, e ascoltava anche le storielle buffe o irritanti della classe di lei; le sfuriate della bidella, le colleghe sempre in tiro, i bambini svogliati o meravigliosi. Almeno finché aveva cominciato a fermarsi in ufficio sempre più spesso.
Amanda lo aspettava sempre alzata, leggendo un romanzo o guardando un film. Al suo arrivo gli sorrideva, si alzava dal divano e gli andava incontro. Fino alla sera in cui non tornò. Semplicemente la chiamò per dirle che sarebbe restato fuori per la notte.
Amanda chiuse il libro, si lavò i denti, si mise il pigiama e cominciò a piangere sommessamente. Fu la prima e unica volta.
La sera successiva cenarono nella loro cucina spaziosa, sorridendosi e parlando del più e del meno, ma ben sapendo entrambi che non era una cena come le altre.
Un mese dopo lui fece le valigie e se ne andò.
Amanda continuò ad andare a scuola ogni giorno, ad incontrare per altri sei anni bambini che crescevano e se ne andavano. Fino al momento tanto desiderato della pensione.
Non le erano piaciute le riforme dei ministri dell’Istruzione; non era riuscita a cambiare il suo modo di vedere gli alunni: individui con doti, potenzialità, caratteri diversi. I piani formativi, i programmi sempre più assurdi trasformavano i bambini in soldatini, tutti uguali, tutti da inquadrare in ambiti, valutazioni, giudizi.
Fu felice di abbandonare la nave che affondava sotto i colpi delle riforme, e cominciò a dedicarsi ai suoi libri, al cinema e ai corsi di italiano per stranieri. Era felice.
Quel giorno di dicembre, dopo aver sorseggiato il caffè, aprì la lettera e vide, come ben sapeva, che gli avvocati del suo ex-marito le stavano chiedendo (gentilmente, non c’è che dire) di lasciare il grande appartamento con mansarda e terrazzo entro la fine dell’inverno.
Amanda sciacquò la tazzina e prese dallo scaffale a fianco del frigorifero un volume di ricette. Nella prima pagina un foglietto ingiallito riportava con una grafia elegante la Torta di mele di nonna Camilla. Gliela aveva scritta proprio lei, la sua cara nonnina, il giorno di Natale di sessant’anni prima.
«Tutte le volte che verrai a trovarmi» le aveva detto, «ti farò la torta. Ma un giorno non ci sarò più e dovrai farla tu per i tuoi nipoti».
Nipoti non ce n’erano stati, e neanche figli, ma Amanda aveva imparato a fare la torta che mangiava così volentieri su, nella borgata fredda e profumata della nonna Camilla.
Posò il gran libro di ricette nel borsone accanto alla valigia; poi si mise il cappotto e uscì di casa, tirandosi dietro la porta. Caricò tutto sulla piccola Panda e partì.

La casa della nonna la stava aspettando.

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