Amanda ricevette la lettera in una fredda giornata
di dicembre. Se lo sentiva già da qualche tempo, come un callo dolorante che
preannuncia la pioggia. Decise di non aprirla immediatamente, ma di lasciarla
sul ripiano, vicino al lavandino, in attesa che il caffè venisse su nella moka.
Ormai
aveva compiuto settant’anni da più di una settimana e ancora non aveva
festeggiato. Non lo avrebbe fatto, naturalmente, come ogni anno da quando suo
marito se n’era andato di casa.
Erano
stati belli i primi anni insieme: lui, con il suo studio di architettura, il
grande appartamento al settimo piano, con terrazzo e mansarda, gli amici eleganti
e le cene prestigiose. Per i loro compleanni, che cadevano a distanza di quasi
sei mesi l’uno dall’altro, andavano in ristoranti sempre diversi, come se fosse
sempre la prima volta.
La
sera lui le raccontava la sua giornata di lavoro e a lei piaceva ascoltare i
racconti degli strampalati e danarosi clienti, con le loro richieste assurde. Lui
parlava molto, durante le loro intime cene in casa, e ascoltava anche le
storielle buffe o irritanti della classe di lei; le sfuriate della bidella, le
colleghe sempre in tiro, i bambini svogliati o meravigliosi. Almeno finché
aveva cominciato a fermarsi in ufficio sempre più spesso.
Amanda
lo aspettava sempre alzata, leggendo un romanzo o guardando un film. Al suo
arrivo gli sorrideva, si alzava dal divano e gli andava incontro. Fino alla
sera in cui non tornò. Semplicemente la chiamò per dirle che sarebbe restato
fuori per la notte.
Amanda
chiuse il libro, si lavò i denti, si mise il pigiama e cominciò a piangere
sommessamente. Fu la prima e unica volta.
La
sera successiva cenarono nella loro cucina spaziosa, sorridendosi e parlando
del più e del meno, ma ben sapendo entrambi che non era una cena come le altre.
Un
mese dopo lui fece le valigie e se ne andò.
Amanda
continuò ad andare a scuola ogni giorno, ad incontrare per altri sei anni
bambini che crescevano e se ne andavano. Fino al momento tanto desiderato della
pensione.
Non
le erano piaciute le riforme dei ministri dell’Istruzione; non era riuscita a
cambiare il suo modo di vedere gli alunni: individui con doti, potenzialità,
caratteri diversi. I piani formativi, i programmi sempre più assurdi
trasformavano i bambini in soldatini, tutti uguali, tutti da inquadrare in
ambiti, valutazioni, giudizi.
Fu
felice di abbandonare la nave che affondava sotto i colpi delle riforme, e
cominciò a dedicarsi ai suoi libri, al cinema e ai corsi di italiano per
stranieri. Era felice.
Quel
giorno di dicembre, dopo aver sorseggiato il caffè, aprì la lettera e vide, come
ben sapeva, che gli avvocati del suo ex-marito le stavano chiedendo (gentilmente,
non c’è che dire) di lasciare il grande appartamento con mansarda e terrazzo
entro la fine dell’inverno.
Amanda
sciacquò la tazzina e prese dallo scaffale a fianco del frigorifero un volume
di ricette. Nella prima pagina un foglietto ingiallito riportava con una grafia
elegante la Torta di mele di nonna Camilla. Gliela aveva scritta proprio lei,
la sua cara nonnina, il giorno di Natale di sessant’anni prima.
«Tutte
le volte che verrai a trovarmi» le aveva detto, «ti farò la torta. Ma un giorno
non ci sarò più e dovrai farla tu per i tuoi nipoti».
Nipoti
non ce n’erano stati, e neanche figli, ma Amanda aveva imparato a fare la torta
che mangiava così volentieri su, nella borgata fredda e profumata della nonna
Camilla.
Posò
il gran libro di ricette nel borsone accanto alla valigia; poi si mise il
cappotto e uscì di casa, tirandosi dietro la porta. Caricò tutto sulla piccola
Panda e partì.
La
casa della nonna la stava aspettando.
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