venerdì 26 aprile 2013

Antonio Manzini, Pista nera, Sellerio


Per chi come me abita in una valle circondata da un anfiteatro di montagne che, con la cima del Rocciavré, si avvicina ai duemilaottocento metri, per chi al mattino spalanca la finestrella della camera da letto direttamente su quelle cime, leggendo nelle nebbie dei fondo valle, nell’azzurro del cielo o negli spennacchi della tormenta i pronostici della giornata, l’idea di dover partire all’improvviso, anche per lavoro, verso quelle altezze è una vera gioia.
Chissà poi, ci si chiede leggendo “Pista nera”, come potrebbe essere vivere a Champoluc, ultimo paese della Val d’Ayas, con la chiostra del Monte Rosa ad accoglierci ogni mattina come un abbraccio amico, con quelle casette in pietra, foderate di legno odoroso, con caminetti scoppiettanti e tavolini imbanditi.
Ma forse, per qualcuno che si chiama Rocco Schiavone, che ha dovuto lasciare con enorme rimpianto la calda e caotica Roma, non è tutto così poeticamente desiderabile. E poi, con queste premesse, potrebbe non trovare, al suo arrivo, un tappeto rosso disteso per lui, neppure se l’uscio aperto è quello della questura del paese valdostano. E diventa a questo punto necessario precisare che il suddetto Rocco Schiavone non viene tradotto nella questura da due ragazzoni in divisa con due solide manette ai polsi, ma ci arriva da solo, e nel ruolo non molto simpatico, ma rispettabile, di vicequestore. Schiavone arriva fresco fresco, anzi semi-assiderato, dalla capitale, e ad accompagnarlo sono solo voci poco precise a proposito di un mezzo scandalo che dalla città eterna lo avrebbe condotto tra le nevi e le diffidenze dei montanari.
Lui, però, non si cura di chiarire alcunché e a trascinarlo sulle piste, con ai piedi un paio di Clarks ormai ridotte a carta straccia dalla neve, non sarà un lavoro facile e gioioso, bensì un cadavere maciullato dalle pale del gatto delle nevi. Il corpo, così mal ridotto da essere irriconoscibile, sarà il perno di una vicenda complessa, in cui la piccola ma non per questo innocente comunità di Champoluc verrà scossa, fino a rivelare ciò che nessuno avrebbe voluto scoprire.

 

 

Viaggio nel tempo


A chi non è mai venuto il desiderio di un viaggio nel tempo? Non parlo di astronavi intergalattiche o di megalopoli con robot al servizio di umani longevi e ipertecnologici; parlo di un viaggio nel passato, di quell’emozione che tanti film ci hanno trasmesso, di vedere con i nostri occhi imperturbabili del terzo millennio momenti ormai trascorsi e presenti solo nei nostri ricordi.
Ebbene, c’è un metodo semplicissimo per percepire l’ebbrezza di una tale emozione: percorrere in primavera una strada provinciale, che dalla pianura salga lentamente in montagna.
Mi raccomando: non un’autostrada.
E non dovete usare mezzi veloci come la vostra automobile nuova e scattante. No, dovete procurarvi una bicicletta e pedalare lentamente, o meglio ancora salire su uno dei rari mezzi pubblici che ancora si riesce a trovare. Certo, il fatto che la loro data di fabbricazione sia precedente alla vostra data di nascita, può costituire in effetti un viaggio nel passato, ma la scelta di questo pacifico mezzo di trasporto è dovuta al motivo che è l’unico che riesca a percorrere una trentina di chilometri in un’ora e venti minuti, ovviamente non considerando trattori e veicoli a tre ruote.
Salite fiduciosi in una delle fermate della grande città di pianura, ma sedendo su uno dei suoi sedili in finta pelle, premuratevi di scegliere un posto vicino al finestrino che, per quanto opaco, vi permetterà di sbirciare oltre il ciglio della strada. Ed ecco che, partito il roboante veicolo, vedrete sfilare i marciapiedi, le fermate coperte, le altre auto strombazzanti del centro di una città. Ma poi i semafori verdi, i tratti straordinariamente veloci (talvolta anche alla velocità di cinquanta kilometri orari) vi porteranno tra casette basse, in cui fanno capolino minuscoli giardini circondati da nanetti ed anfore, decorati da siepi e autobloccanti. Ed è lì che, nei primi giorni della calda primavera, vedrete i gialli cespugli di forsizia cangiare al verde brillante, i biancospini fremere di bianchissimi e profumati fiorellini, i ciliegi scoppiare come manciate di grassi pop-corn.
Poi, quando la salita incalza e le marce si abbassano, costringendo il motore a rombi tossenti, ecco che i giardini si dilatano, le siepi si allungano e le forsizie tornano al loro giallo sfolgorante, i biancospini mostrano qua e là corolle di infiorescenze candide e i ciliegi spingono gruppi di fiori candidi e di boccioli semichiusi.
E finalmente, dopo una serie di strette curve e rettilinei improvvisi, appare il paese di montagna e le casette, non sempre circondate da reti o recinzioni fittizie, si alternano a pascoli verde pallido, a  boschetti così curati che sembrano uno scenario teatrale. La vostra immaginazione, come pungolata da una lieve scossa, si ritroverà trasportata alla fine di febbraio, nel freddo di prati gialli e bruciati dal gelo, tra lingue di neve da cui spuntano lembi di verde e piccoli ciuffi di primule gialle. Non saranno necessari i muri in pietra, le finestre piccole dalle imposte massicce a trascinarvi indietro nel tempo, basteranno i semplici ciliegi, ancora stecchiti e neri nei boschi spogli.
Et voila, la magia è fatta.

 

 

 

sabato 20 aprile 2013

SpaceLand in Valle Stretta

Il rifugio Re Magi
E’ stata una vera e propria avventura quella che i ragazzi della II E dell’istituto Pascal di Giaveno hanno vissuto in Valle Stretta, durante la gita scolastica dell’11, il 12 e il 13 marzo, partecipando al Campus di tre giorni organizzato dall’associazione culturale SpaceLand, al rifugio Re Magi.
Niente a che vedere con le consuete camminate per musei, o le lunghe scarpinate in viali e corsi metropolitani: cartina militare alla mano, si sono avventurati lungo sentieri innevati per cercare altre mappe, come in una caccia al tesoro; hanno acceso un fuoco nella neve e si sono cucinati il pranzo da soli; hanno simulato il decollo e l’atterraggio di uno Shuttle, osservato le stelle con un telescopio e scoperto i fenomeni astronomici della Via Lattea. Una esperienza didattica nuova, ma decisamente valida.
“Siamo partiti con il treno da Avigliana – spiega la prof. Maria Cristina Benedetti, insegnante di Biologia, una dei due accompagnatori, con il prof. Valter Alovisio di Italiano, - e siamo arrivati a Bardonecchia, dove abbiamo preso un pullman che ci ha lasciati alla partenza della pista di sci di fondo. Eravamo immersi nella neve e nel silenzio, con un panorama emozionante e senza alcun collegamento con Internet o cellulari.”
Ad attenderli c’erano l’ing. Carlo Viberti, creatore ed organizzatore dello SpaceLand,  l’ing. Francesco Massa, suo collaboratore, e la dott. Allais, che ha curato la parte psico-fisica dell’addestramento. Dopo una presentazione, durante la quale sono stati consegnati il cappellino dello SpaceLand e il giubbotto ad ognuno dei partecipanti, hanno diviso in gruppi i ragazzi, e hanno consegnato loro una mappa con le indicazioni per le tappe successive e quindi per il rifugio. Il resto lo hanno fatto i ragazzi stessi.
“E’ stato divertente, ma anche istruttivo – commenta uno di loro. - Abbiamo raccolto legna secca lungo il sentiero innevato, abbiamo scavato una “truna”, cioè una specie di igloo per il fuoco, e abbiamo cotto salsicce e minestra liofilizzata.  Eravamo bagnati e infreddoliti, ma ci siamo divertiti un sacco.”

Il laboratorio SpaceLand mira proprio a questo: avvicinare all’avventura e all’esperienza dello spazio tutti coloro che lo desiderano; far conoscere a tutti l’importanza delle missioni spaziali e dei viaggi a gravità zero, con  i collegamenti con la Fisica, le Scienze e la Medicina. Per questo il campus offre due livelli di addestramento: uno di base e uno intensivo.
I ragazzi dell’indirizzo Scientifico delle Scienze Applicate del Pascal hanno seguito il percorso di primo livello, superando, ancor prima dell’arrivo al rifugio, la prova di orientamento e di sopravvivenza alpina.
La seconda prova consisteva nella simulazione di una missione spaziale, seguendo le procedure di decollo, ingresso orbitale e atterraggio di una navicella Shuttle.
“Ogni gruppo era diviso in due: alcuni erano sul gatto delle nevi, sul quale c’era un simulatore di bordo dello Shuttle – spiega un altro allievo del Pascal, - mentre altri due di noi stavano dentro al rifugio come torre di controllo, e manovravano un joy-stick collegato al computer. Abbiamo sfasciato un sacco di navicelle!” ridacchia alla fine.
“Avevo qualche riserva sulla piena riuscita dell’esperimento – commenta la prof. Benedetti; – una classe di ventisei, con una netta maggioranza maschile, poteva diventare difficile da controllare. Invece i ragazzi si sono adattati in fretta alla situazione, dimenticando subito computer e tv e imparando a collaborare tra loro, ad eseguire gli ordini e a divertirsi con un mazzo di carte o una partita a palle di neve.”
Una doppia valenza educativa, dunque, per questo campus: la condivisione di uno spazio comune come quello del rifugio e l’apprendimento scientifico secondo una didattica non scolastica.
Anche i momenti più convenzionali sono stati un successo, come ad esempio la lezione del  prof. Attilio Ferrari, direttore dell’osservatorio astronomico di Pino Torinese, che, dopo aver presentato una proiezione di foto con fenomeni astronomici, ha insegnato ai ragazzi come osservare il cielo, con un telescopio portato dall’osservatorio stesso.
“Siamo stati fortunati: nonostante le previsioni meteorologiche non belle, abbiamo avuto tre giorni di cielo limpido e sereno. E’ stato emozionante poter osservare il cielo con il telescopio – commenta una studentessa; - l’idea di essere così in alto, isolati dalla neve e lontani da ogni città o paese è stato ciò che più mi ha entusiasmato.”
Il secondo giorno Antonio Lo Campo, giornalista della Stampa esperto in missioni spaziali, ha presentato ai ragazzi la storia delle esplorazioni astronautiche, usando come aula scolastica la sala del rifugio. E nella stessa sala c’è stata la consegna dei diplomi di primo livello ai ragazzi, nonché il premio al team che è riuscito a far decollare, seppur in simulazione, uno Shuttle.
“E’ stato bello vincere il premio. Anche noi che non abbiamo sempre voti alti a scuola abbiamo dimostrato delle capacità!” è il commento sincero di uno del “team”.
La seconda sera c’è stato un momento dedicato alla poesia in musica, grazie al prof. Alovisio, che ha fatto ascoltare ai ragazzi Stella cometa di Jovanotti e Stelle di Guccini. Tra una partita a palle di neve e una a carte, si è creato un momento di silenzio quasi magico, in cui i ragazzi ascoltavano e intervenivano nella discussione con voce leggera, quasi per non turbare l’atmosfera. Doverosa, al termine, una passeggiata alla luce delle stelle e delle pile tascabili.
Carmelina Venuti, dirigente scolastico dell’Istituto Pascal, descrive positivamente l’esperienza: “Poter visitare con occhi diversi un luogo e un ambiente che i ragazzi hanno sotto gli occhi ogni giorno, ma che può rivelare tutt’altro, è fondamentale per l’apprendimento. Se non avessi avuto mille impegni, avrei voluto partecipare anch’io” conclude con un lieve rimpianto.
Sarà per la prossima volta, ci auguriamo con lei.

Pubblicato su La Valsusa

 

domenica 7 aprile 2013

Sergio Pent, La casa delle castagne, Barbera


Siamo in Val di Susa, in un paese che somiglia a Sant’Antonino, ma potrebbe essere, nella memoria, uno qualunque dei nostri paesi di montagna, con il bar in piazza, il postino che conosce tutte le famiglie, i prati, le cime sullo sfondo e l’autostrada che taglia in due una valle che si fa sempre più stretta. Lui è guardiaparco sui monti dell’Orsiera Rocciavré; ama le valli, i boschi e le creature che può incontrare nelle solitarie giornate che trascorre lavorando. E’ affezionato al suo paese, non lo lascerebbe mai, seppur con i suoi mille difetti, seppur per un’Europa che sta nascendo in quest’ultimo anno del secolo scorso, il 1999.
E’ lui il protagonista dell’ultimo romanzo di Sergio Pent, e non ha nome. La scelta di  non nominare il nostro guardiaparco, perché di scelta si tratta, è un modo per far entrare direttamente il lettore nella vicenda, per farci immedesimare, pagina dopo pagina, nei tratti di questo giovane uomo solitario e silenzioso, che si ritrova di colpo proiettato indietro nel tempo.
Lo “stargate”, il meccanismo che lo risucchierà al 1990, e da qui al 1945, è una semplice lettera, scritta da una mano amata e mai dimenticata: Britta. Lei sì ha un nome, un nome che è una storia, perché anche sua nonna si chiamava così: Britta, ed era la moglie di un capitano tedesco, che all’inizio la seconda guerra mondiale fu sradicato dai banchi della scuola dove insegnava e mandato a combattere sui campi sanguinosi di quelle battaglie che adesso ricordiamo solo con nomi e date. Thomas Hochreither era poi arrivato, al termine della guerra, al paesino in Val di Susa, nel momento più difficile da gestire dalle forze armate e dalla Resistenza.
Il romanzo si svolge tutto al passato, ma la vera vicenda, il fulcro dell’intreccio, si dipana in una ventina di giorni del 1990, in cui una richiesta testamentaria sconvolge un’intera famiglia. Nonna Maria è morta, lasciando il marito scontroso, musone e sanguigno senza più nessuno che sappia tenergli testa, e chiedendo, come ultima volontà, che una spilla venga mandata in Germania, ad un indirizzo a tutti sconosciuto.
Il nonno accetta la richiesta di spedire la spilla, e a quel punto tutta la famiglia si chiude attorno ad un’ansia crescente per l’attesa di una risposta. Ma la risposta non arriva e, proprio quando si sta cedendo alla tentazione di credere che mai nessuno riceverà quel gioiello, si presenta al cancelletto di casa una splendida ragazza bionda. Il suo arrivo scompagina tutta la famiglia, naturalmente, ma è lui, il guardiaparco a ricevere il colpo più forte.

- Il mio protagonista ama la montagna e la solitudine - spiega Sergio Pent al pubblico riunito nella libreria La Casa dei Libri di Avigliana, - eppure l’intesa che si crea con la ragazza tedesca sarà una tentazione fortissima che lo invita, per la prima volta, alla fuga. -
Ma le cime dei monti, i laghi splendenti e il cielo mutevole non sono facili da lasciare.
- La mia è una storia di persone, ma anche della Val di Susa. Mi piace far conoscere la Valle con la geografia dell’anima, che cerco di ricreare nel lettore. E’ una storia d’amore verso i luoghi e verso le generazioni dei padri e dei nonni; vite che si sono incontrate in un momento particolare della storia, che in un altro forse avrebbero seguito un distino diverso – spiega lo scrittore al pubblico.

E’ un pubblico preparato, che ha già letto il suo romanzo, che segue le critiche letterarie di Pent su “Tuttolibri” della Stampa, i suoi pezzi sull’Unità; non un semplice uditorio, ma un vero e proprio interlocutore attento ed esigente. Riconosce nei tratti dei protagonisti qualche persona conosciuta, o forse solo immaginata.
- I personaggi del romanzo non sono reali, ma emblematici. Alcune figure sono presenti nei nostri ricordi, nella memoria collettiva di un paese, di una cittadina; cambiano i nomi, i tratti somatici, ma resta il ricordo comune di un mondo che non c’è più. Per questo l’ho ambientato nel 1999, perché è stato l’ultimo anno in cui eravamo ancora Italia: benché affacciati al nuovo millennio, vedevamo l’Europa ancora lontana. Poi il mondo di paese è cambiato, se n’è persa l’essenza senza tuttavia acquisire i vantaggi di una vera comunità europea – conclude.

- Questo romanzo mi ha affascinato e commosso – dice Martina Franchino, la proprietaria della Casa del Libri. – Mi sono ritrovata nel protagonista, il nipote che ascolta i vecchi raccontare i fatti, ognuno con le proprie ragioni, ognuno vinto e vincitore, ma in fondo entrambi dei vecchi, non più dei nemici. -

 

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