mercoledì 26 agosto 2015

Buon Noncompleanno

Oggi ho un anno in più, ma cosa significa? Ho un anno in più di quando? Di 365 giorni fa. E allora non potrei dire forse che ho 365 giorni in più, o 12 mesi o 52 settimane in più o, peggio ancora, 31536000 secondi in più?
Ci sono stati momenti, in questo mio quarantanovesimo anno, in cui mi sentivo euforica ed entusiasta come una ragazzina, altri in cui il peso degli anni si triplicava sulle mie spalle. Troppo facile dedurne che l’età non conta: eccome se conta. Ma l’età va misurata in modo relativistico.
La domanda dunque è questa: quando è stato, o quando sarà il mio quarantanovesimo compleanno?
Se vado indietro nel tempo, so che ci sono tantissimi giorni in cui avrei potuto festeggiare negli ultimi dodici mesi: quando mio padre è uscito dall’ospedale la prima volta, o quando, dopo il secondo ricovero, è di nuovo tornato a casa e ha ricominciato a vivere e a mangiare con la sua solita energia. O forse avrei potuto festeggiare il mio compleanno il primo giorno in cui siamo entrati ufficialmente nella nostra nuova casa di montagna.
Certamente lo festeggerò questa sera, insieme a lui, il mio papà, che ne compie ottantaquattro.
Magari lo festeggerò ancora tra qualche giorno o qualche settimana, quando un evento formidabile o minuscolo mi riempirà di gioia.
Comunque sappiatelo: d’ora in avanti il mio compleanno lo festeggerò ogni volta che mi pare, esattamente come fa il Cappellaio Matto.
Auguri a tutti quelli che oggi non compiono un bel niente.

giovedì 20 agosto 2015

Cambio di stagione

L’estate sta finendo, cantavano i Righeira quando erano ancora agli inizi del loro declino. In spiaggia di ombrelloni non ce ne sono più, proseguiva il testo dimenticabile, riferendosi ad un settembre ancora tiepido ma ormai definitivamente scolastico e lavorativo. Il messaggio, semplice ma efficace, puntava a comparare la desolazione di una spiaggia ad autunno imminente con la solitudine dello sfigato, la cui ragazza ha già chi la consola dopo la fugace avventura estiva con lui. C’era, nell’allegra canzoncina, una tristezza di fondo: la fine di una storia sentimentale, seppur frivola e superficiale, veniva accomunata alla stagione umida e fredda e all’imminenza del grigio autunno.
Mi sono sempre chiesta, oltre all’ovvia domanda sul perché qualcuno debba ascoltare i Righeira, perché l’autunno venga considerato una stagione deprimente, la cosiddetta “brutta stagione”.
Per me è meravigliosa!
Certo, l’estate è la stagione delle vacanze, delle ferie quasi obbligate (soprattutto per noi piemontesi, figli della tradizione FIAT e della chiusura ad agosto); ma è in settembre che comincia la parte interessante dell’anno.
La programmazione cinematografica sfodera i titoli più belli, la case editrici portano in libreria gli autori migliori e i romanzi che diventeranno i fiori all’occhiello del catalogo Strenne, la cucina abbandona carpacci e insalate per affrontare i piatti e gli ingredienti della tradizione nostrana, il freddo rosé lascia finalmente il posto ai rossi corposi e ben invecchiati, mentre teatri e sale presentano la nuova stagione di spettacoli.
Ma perché ne sto parlando adesso, che agosto è ancora nel pieno delle sue forze e l’autunno è lontano? Perché così non è, cari miei, almeno non qui, tra i boschi di castagni e faggi che mi circondano.
Dopo il caldo infernale contro cui nulla serve e nulla si può fare (tranne inquinare il pianeta con i condizionatori), la pioggia di metà agosto porta sempre un po’ di fresco: le finestre in città si spalancano e un primo, timido refolo d’aria entra nelle case roventi. Ma è solo un intervallo: il sole scalderà ancora.
Qui no, qui il 15 d’agosto è un giro di boa, è un cambio di stagione. Il calendario non lo dice? Pazienza, noi sappiamo che a 901 metri s.l.m. l’autunno è già cominciato, con i calzettoni alla sera, i golf sulle magliette, la coperta sulle lenzuola. I comignoli cominciano a sbuffare fumo nei giorni di pioggia, i cagnolini si acciambellano in braccio mentre guardiamo un film e i gatti diventano grassi e soffici di pelo. Così, nelle sere di questi giorni di metà agosto, mentre sulle spiagge si liberano lanterne giapponesi e si sorseggia sangria, io posso sdraiarmi in poltrona ad ascoltare la pioggia dai vetri, gustando un bicchiere di barbaresco. E se il libro che ho tra le mani non è una novità autunnale, è solo perché non è ancora stato pubblicato. 

domenica 9 agosto 2015

Barbecue

Il turista attento è quello che cerca di conoscere gli usi locali, di inspirare profondamente il profumo del luogo, anche quando sa un po’ di selvatico. Non si aggira osservando come in un museo, ma entra nel vivo del paese che lo ospita e lo comprende.
Per questo potrebbe essergli utile sapere fin da subito, se nei suoi progetti c’è una anche breve vacanza in montagna, che la parola Babercue non esiste, almeno qui sulle Alpi Cozie.
Storpiata in bàrbechiu dagli anglosassoni, che ci hanno così vendicati dei raccapriccianti Coppì, Bartalì e Nibalì del Tour de France, è entrata negli usi e costumi di popoli urbanizzati come semplice e gustoso ritorno ai primordi. Sappiatelo: è completamente falso.
Se il cacciatore-raccoglitore riuscì ad un certo punto a scoprire l’importanza del fuoco in modo totalmente casuale, e ad imparare sulla sua pellaccia l’importanza di cuocere la carne prima di ingurgitarla, non è a lui che ci si può ispirare per la graziosa e raffinata arte del barbecue. Treppiedi con le ruote, palline di carbonella acquistate al supermercato, o, peggio ancora, una postazione per la cottura a gas, grembiuli multitasche, forchettoni con rebbi differenziati e decine di salse non sono un ritorno alle origini. Quelle belle tavolate con piatti di ogni colore, tovaglie di carta e bicchieri di plastica arcobaleno avrebbero scassato di risate il più evoluto dei Neanderthaliani.
Qui da noi si fa la Grigliata.
Il nome deriva, come ben si può immaginare, dal fatto che per cuocere carne o verdure si usa una griglia di ferro: vecchi tombini, chiusini di canali di irrigazioni, o addirittura un oggetto creato su misura dal rivenditore di materiali ferrosi, basta che sia grande.
La si poggia su una pila di mattoni o di pietre squadrate e si accende il fuoco direttamente sulla terra. E qui viene il tocco di classe che soltanto uno scafato turista ha assimilato: il fuoco deve essere di vera legna, possibilmente in pezzi lunghi, magari un po’ umidi, ché fa effetto fumé sulle carni.
Sopra la griglia è possibile, anzi, consigliato, appoggiare una losa, ovvero una lastra di gneiss scartata dalla copertura di un tetto per motivi diversi, quasi sempre per irregolarità di superficie o forma; questo rende ancor più simpatica la preparazione dei cibi, con i liquidi di cottura che scorrono in rivoli sulle scarpe del cuoco o cadono sfrigolando in pittoresche scintille nelle fiamme.
Dato lo spessore e la consistenza della losa, è necessario accendere un vivo fuoco alcune ore prima di pranzo, possibilmente con la compagnia già al completo. Questo renderà fondamentale il ruolo del sommeiller di turno, che allieterà l’attesa con le sue pregiate bottiglie, rubate dalla cantina del nonno.

Al termine della grigliata, quando il sole si avvicina alle cime dei monti sbadigliando, i superstiti si accerteranno che le fiamme siano davvero spente con un rituale che certamente vede le sue origini nella notte dei tempi: la pipì sul fuoco. Per ovvi e scorretti motivi, questo rituale è ahimé appannaggio dei soli maschi, ma alcuni movimenti femministi valligiani sono all’opera per una apertura di genere. 

giovedì 6 agosto 2015

Brigadoon

Una casa in montagna è tranquillità, pace, e la notte è anche un po’ magia. Il silenzio è solo apparente; nel bosco le foglie sembrano scuotere via il caldo della giornata, in continue danze e fruscii. I rapaci notturni sibilano e stridono e il ruscello si ravviva, nella quiete totale. Ma sono rumori minimi, come potrebbero fare dei folletti giocosi saltando sulle foglie secche e lanciandosi bacche colorate.
Nessun motore o clacson, nessun fragore, schianto o boato. Il ronzio del frigorifero sembra squarciare la quiete e quando, finalmente, si interrompe, ecco di nuovo il grillo e il gufo.
La nostra prima notte qui è incredibile. Facciamo le ore piccole semplicemente guardando le luminosissime stelle, ascoltando la vita notturna del bosco, seguendo l’intermittenza delle lucciole (da quanto tempo!).
Ci addormentiamo salutandoci sottovoce, senza puntare la sveglia per il giorno dopo:  domenica, la nostra prima domenica nei boschi, la nostra domenica sussurrata.
Al mattino mi sveglio per prima e corro a spalancare le imposte piene, che hanno conservato il buio fino a tardi. Mi affaccio alla finestra riempiendo i polmoni e lì mi blocco, sbigottita. 
Davanti a me, invece del prato splendente di rugiada, una distesa di auto ricopre ogni superficie possibile. Ne conto (ma perché, poi) tredici, ma altre si inclinano pericolosamente sul ciglio della strada sottostante. Mi avvio con un sentore di allarme in cucina e, lentamente, spingendole con un solo dito, apro le imposte anche lì.
Musica, risate, richiami che si sovrappongono; tonfi sordi di scuri abbattute e tintinnio di stoviglie. Sotto la finestra è apparsa dal nulla una folla festante, con teglie, falò e radioline.
La parola mi giunge inaspettata: Brigadoon. La ripeto a voce alta, a me stessa.
Ricordate? Gene Kelly e Van Johnson a caccia in Scozia, che finiscono a Brigadoon, un villaggio di pastori? Pane sfornato, fabbri alla forgia, cavalli da tiro, galline per la strade e, naturalmente, una splendida pastorella che balla come Eleonora Abbagnato.
Gene Kelly, reduce da una relazione stantia, si innamora di lei, ma al mattino dopo tutto è svanito: carretti decorati, donne agghindate a festa, musiche, canti, tutto scomparso. Una radura silenziosa dove c’era la piazza del mercato, rocce muscose al posto delle case e su di esse un ballerino desolato, perché con tutta la baracca è scomparsa anche la sua bella.
Un giorno solo può vivere il paesino, un giorno solo ogni cento anni.
Scuoto la testa e mi risveglio da questo sogno ad occhi aperti. Richiudo la finestra.
Un giorno solo, penso, ed un sorrisetto maligno affiora sul mio viso. Mi sento un po’ Norman Bates.

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