lunedì 26 maggio 2014

Elena Bosca, Sweet love, La Corte Editore

è stata gradita ospite a Giaveno 
martedì 10 giugno 
con il suo romanzo
Sweet Love, la ragazza delle torte
Ha presentato Edoardo Favaron

Con lei ha chiacchierato il maestro cioccolatiere
Guido Castagna

Com'è nato il libro?

Torino e il cioccolato.

Sono le 8,30 di una mattina qualunque di inizio estate e Wendy è pigiata nella folla sul tram che sferraglia nelle vie del centro di Torino. Come ogni mattina, da ormai quattro anni, sta andando al lavoro nell’agenzia aDora, Organizzazione Eventi, gestita dall’intraprendente quanto affascinante Dora, appunto.
Wendy sta pensando all’agognato aumento di stipendio e alla promessa di imminente assunzione a tempo indeterminato quando una donna, in evidente stato interessante,  si insinua a fatica in quel pigia pigia. La situazione sarebbe per lei già parecchio complicata, anche senza l’improvviso intervento di un controllore che non accetta alcuna spiegazione per il suo biglietto non timbrato.
E’ un attimo: la nostra Wendy, generosa e impavida, indossa i panni del supereroe e, strappati metaforicamente i bottoni della camicetta, vola in suo soccorso, obliterando un biglietto per lei. Quel che non può immaginare è che da quel semplice gesto di cortesia la sua vita verrà totalmente scombussolata.
«Devi aprire le tue ali, Wendy» le dice la donna, dopo averle afferrato la mano e aver cominciato ad osservarle il palmo come se fosse una mappa del tesoro.
Non male come consiglio, ma come fa quella sconosciuta a sapere il suo nome? Forse è davvero una sensitiva, dunque, perché non tentare?
Così, poco dopo, Wendy si ritrova con un mutuo gigantesco appena acceso, uno storico fidanzato che l’ha appena lasciata e un licenziamento al posto della desiderata promozione.
La tentazione di abbandonarsi a pianti e lamenti è forte, ma non nelle corde della nostra giovane intraprendente. Durante un weekend a casa di suo padre, la necessità le farà riscoprire doti che aveva accantonato per il lavoro e, forse, una nuova strada da percorrere.
Con la sicurezza che l'amicizia di Lara e Maggie le dona, proverà davvero a spiccare il volo, anche a rischio di qualche disastroso atterraggio di fortuna.



domenica 25 maggio 2014

Lorenzo Alessandri, a cura di Concetta Leto, Zorobabel, e Hotel Surfanta, ed. Skira

Avevo in casa ormai da molti mesi il libro Zorobabel, volume di Memorie del pittore Alessandri curato dalla professoressa Concetta Leto. Lo tenevo in un luogo privilegiato del salotto, pronto ad ogni consultazione, impulsiva o ponderata, fulminea, come cedendo ad un capriccio, o lenta, per gustare con la giusta calma più brani. Al suo fianco il meraviglioso Hotel Surfanta, il volume di Skira che contiene le trentatré Camere o Interni, pitture realizzate dall’artista negli anni Ottanta, anch’esso curato dalla Leto in modo “fedele il più possibile al menabò delle Camere lasciatoci da Alessandri”.

Mi capitava, così, di aprire a caso l’uno o l’altro; di osservare i magnifici dipinti o di leggere brani degli scritti che il pittore annotava, con rigorosa attenzione, quasi ogni giorno, creando nella mia mente un’immagine di lui che andava via via chiarendosi.
La mia lettura disomogenea, istintiva, che potrebbe sembrare superficiale, non è però del tutto da condannare: gli scritti stessi sembrano adattarvisi senza problemi. Come spiega la curatrice nella prefazione: “Pensieri e sentimenti si susseguono ricostruendo un profilo di un’anima vissuta con il desiderio di donarsi completamente all’arte”.
Terminata la lettura non credo di aver completato l’immagine di Alessandri, né credo sia possibile a nessuno come non lo è stato forse neanche per lui, ma posso dire di conoscerlo meglio, grazie alla sua scrittura. La figura di questo artista stravagante, misterioso, si andava per me svelando senza perdere in alcun modo parte del fascino che i suoi dipinti provocano in chi li ammira: conoscevo i suoi quadri inquietanti, in cui mostri orrendi vengono affiancati a splendide ragazze nude; dove architetture fatiscenti o rovine fanno da sfondo a sabba infernali, arricchiti da simboli esoterici o da personaggi deformi con espressioni grottesche. Questo era ciò che conoscevo del pittore Alessandri; ben poco, ora che Concetta Leto mi ha mostrato, con Zorobabel, il vero volto dell’artista.
Così ho deciso di scriverne una recensione. Ma il mio campo è la narrativa, la mia materia sono il romanzo e il racconto; dunque perché uno scritto di memorie? Perché non c’è nulla di più narrativo della vita stessa. Un uomo nasce e vive e nella sua esistenza si dipanano, per quanto banale e monotona possa essere, mille trame. Incontrerà personaggi, vivrà passioni, supererà ostacoli o da esso verrà sopraffatto. Allora quanto può esserci di più narrativo del diario di un uomo la cui vita è stata ricchissima ed affascinante?
Molto si è detto su Lorenzo Alessandri, sui lati oscuri, misteriosi della sua esistenza. Vivendo nel suo stesso paese, avendolo conosciuto, sebbene in modo estremamente superficiale, ho potuto vedere il personaggio attraverso lo sguardo sospettoso della gente, che lo ha trasformato in un satanista bizzarro e, forse, pericoloso.
Certamente egli stesso aveva creato attorno a sé, fin dagli anni della Soffitta Macabra, nella quale si riuniva con gli intellettuali suoi amici, un alone misterioso. L’amore per l’esoterismo, per la spiritualità orientale, unito alle sensazioni forti che le deformità umane o dei mostri da lui creati procurano a chi osserva i suoi dipinti, lo hanno fomentato.
Era un uomo curioso e interessato a tutto ciò che è strano; la sua intelligenza aperta e vivacissima era costretta nei dogmi di una famiglia tradizionalista. Il desiderio di evasione e di scoperta era fortissimo: “Tutti cercavamo qualcosa e tutti qualcosa trovammo” scrive di quei primi anni di incontri nella Soffitta Macabra.
Il grottesco, l’esoterico, il misterioso, ma anche il misticismo e l’ascesi sono le spinte che hanno contribuito a fare dell’ uomo un personaggio, una leggenda, a cui la sua arte sottostava, ma sempre senza perdere di vista la dignità umana e la compassione.
“Oggi ho letto un articolo sul Cottolengo” scrive il 25 maggio 1950. “E’ disastroso nella mia anima constatare che io non ho mai fatto niente per i mostri umani, per quegli stessi mostri umani che tanto eccitano la mia fantasia e che disegno con grande passione […]. Devo rinunciare a disegnare sinceramente i miei mostri perché da oggi mi sono imposto un debito di riconoscenza e di amore per questi esseri disgraziati”.

Concetta Leto ha dedicato molti anni ed enormi energie a raccogliere e selezionare materiale per questo volume con l’intento di scoprire il vero volto di Alessandri. Quel che ne emerge è il ritratto di un uomo originale e bizzarro, che amava con tutto se stesso la luna, che adorava la notte, la musica. Un uomo che credeva nell’amicizia e nella collaborazione: in diverse occasioni cercò di riunire gli artisti torinesi, con sodalizi intellettuali, luoghi di incontro e manifestazioni collettive, perché con il loro lavoro potessero arricchire reciprocamente le diverse esperienze. Talvolta prevalse l’individualismo, ma in altri casi il suo carisma agì da catalizzatore, come nel gruppo artistico Surfanta, nel quale radunò artisti suoi coetanei, come l’amico Abacuc.
Grazie ai suoi scritti, scopriamo che quel che noi consideravamo un lato oscuro era invece fonte di stupore e di divertimento, grazie al suo brillante intelletto e al suo spiccato senso dell’umorismo, che rende la sua stravaganza ancor più affascinante.
Nelle pagine di Zorobabel incontriamo insomma un artista vivace e generoso, per cui la vita era una continua scoperta; un maestro che non temeva i confronti e voleva vivere nella pienezza.


mercoledì 21 maggio 2014

Giuliana Barbera Castiglia, Un'ipotesi per Eufrasia

Siamo nei primi anni del Novecento e Torino è una città splendente; la Belle Époque giunta da Parigi sta illuminando le vie, i palazzi e le donne, che diventano ogni giorno più allegre e vivaci. Almeno quelle della buona società.
Eufrasia non appartiene ad esse; suo padre è un operaio della fornace di mattoni della famiglia Barbera,  e lei vive in un “ciabòt” senza acqua corrente, pigiata con gli altri membri della famiglia in uno spazio ristretto e malsano. Ma il suo carattere risoluto le fa credere che esista qualcosa di più importante del ceto sociale: la sua intelligenza.

Proprio in quel giorno Eufrasia cammina veloce sui polacchini, ben in vista da quando ha accorciato, con un gesto irriverente, l’orlo della gonna di quindici centimetri. La sua statura e la sua bella presenza non la fanno passare inosservata, ma lei non si cura di chi può guardarla per strada: sta andando in piazza Castello, ad un appuntamento con un uomo affascinante che non si farà aspettare e di cui, senza volerlo ammettere, è già innamorata. È Marco Barbera, uno dei proprietari della fornace, il suo titolare, da quando ha iniziato a lavorare nell’ufficio contabilità.
La visione del mondo della ragazza, così progressista per quegli anni, è dovuta anche a suo padre Giacomo, così chiamato in onore di Puccini dalla madre, sarta di scena, che lo partorì dietro le quinte. Egli ha sempre creduto fermamente nell’importanza dell’istruzione e ha voluto dare più possibilità ai suoi figli, mandandoli alla scuola gratuita delle suore. Egli stesso capisce perfettamente che la spartizione sociale in ricchi e poveri è troppo divaricata e cerca un riscatto con i primi scioperi e le proteste, divenendo il leader dei fornaciai.
Marco, il padrone, non sarà un ostacolo, la sua mente aperta e la sua generosità permetteranno le prime conquiste agli operai dei mattoni: una cooperativa delle Fornaci Riunite e una cassa mutualistica.
Non per questo la distanza di censo tra Marco e Eufrasia potrà essere colmata: Giacomo non permetterà, d’accordo con la concreta figlia, un matrimonio impossibile. La ragazza dovrà sposare qualcuno di più adatto alla sua condizione, qualcuno che suo padre ha già ben definito nella mente, sperando che la ragione possa aver la meglio sui sentimenti.

Giuliana Barbera Castiglia ci guida con bravura lungo la storia di sua nonna, personaggio per lei affascinante e avvolto da un’aura di mistero, non avendola conosciuta personalmente. La vicenda privata e intima, che l’autrice arricchisce con la fantasia, colmando le lacune di una storia familiare incompleta, viene perfettamente intrecciata ai fatti chiave dei movimenti sociali di inizio secolo: le rivolte operaie, le prime emancipazioni femminili, le scoperte e le invenzioni che si impongono alla tecnologia e alla scienza in modo perentorio in quegli anni di fermento. 
Un romanzo ricco e avvincente, che coinvolge il lettore e lo cattura in una trama densa e imprevedibile, con personaggi degni dell’alta narrativa storica. Sotto le molte vicende e i colpi di scena il lettore viene accompagnato nel corso di tutto il romanzo da un sottofondo costante, un filo rosso appena percepibile ma che sta decisamente a cuore all’autrice: l’amore per la cultura.




mercoledì 14 maggio 2014

Enrico Camanni, Il viaggio verticale, Ediciclo editore

E’ un libro intimo questo Viaggio verticale, l’ultimo pubblicato da Enrico Camanni, ed è il primo che lo veda, in un modo o nell’altro, protagonista. Durante la sua lunga carriera di giornalista e scrittore, ha seguito nei suoi innumerevoli articoli, editoriali e libri un unico filo rosso: la montagna.
Alpinista appassionato fin da bambino, nel 1977, a vent’anni, era già caporedattore della Rivista della montagna e da allora non ha mai messo da parte la penna o le scarpette, cementando un’unione duratura e in continua evoluzione tra la scrittura e l’arrampicata.
Camanni parla al pubblico attento nella splendida
cornice del Giardino delle Donne ad Avigliana.
Alle spalle il banchetto della Casa dei Libri
e di Trekking Sport.
17/5/14
Cronaca, storia, biografia, romanzo: la montagna è stata spunto, materia viva o scenario dei suoi servizi giornalistici come dei suoi libri. Mai però come in Viaggio verticale la montagna era stata rappresentata da Camanni in modo così personale, così profondo.
In questi trentatré brevi capitoli, che non seguono una cronologia o una logica di causa effetto, possiamo leggervi una sorta di diario, un quaderno di riflessioni, uno zibaldone di pensieri che in modo apparentemente casuale ci guida verso le profondità dell’amore per l’arrampicata.
“Chi non ha mai sentito il bisogno di scalare un albero non è mai stato bambino” dice all’inizio di uno di questi. Il desiderio di salire, di affrontare il vuoto in contrasto con la paura e il controllo, è uno dei temi-guida che l’autore affronta: la paura di cadere o il terrore inconscio dell’abisso che si apre sotto i piedi dello scalatore si uniscono in modo indissolubile all’euforia che la stessa vertigine causa. Il distacco mentale che la parete crea in chi la affronta trascina in una “realtà separata”, nell’incanto di entrare in un mondo senza tempo, dove le dimensioni acquistano un valore astratto e magico. Un incantesimo che finisce al momento stesso in cui il piede torna a contato con il piano e le mani non servono più per camminare.
“Dopo l’ultimo strappo toccammo il colle e finalmente ci arrampicammo sulla montagna” racconta nel capitolo Vertigine, osservando la salita con gli occhi di se stesso bambino. “Fu così che fiutai il fetore del vuoto” e noi, leggendo le sue parole sentiamo la stessa paura, la stessa impotenza contro una forza che non possiamo vincere che con la ragione.
Cosa ci spinge dunque a salire? E’ la domanda che nel corso di tutto il libro viene posta al lettore attraverso le imprese di mostri sacri dell’arrampicata, o dell’autore stesso o, in un gioco letterario, da chi prima di lui ha voluto cercare una risposta: Buzzati e la ricerca delle illusioni, Hermann Hesse e il contrasto tra la vera vita di Boccadoro e la meditazione interiore e statica di Narciso.
Camanni gioca con la letteratura, assorbe le immagini e i pensieri dei grandi autori che di montagna hanno vissuto e narrato, o trasferisce i propri pensieri nei personaggi da lui stesso creati, plasmandoli con i suoi desideri e creando episodi che non conoscevamo ancora.
In modo leggero e senza strappi entriamo nel mondo dei grandi scalatori del passato, nello spirito di sacrificio ed eroismo che li guidava; li osserviamo con lo sguardo disincantato degli arrampicatori del Nuovo Mattino, per cui scalare era divertimento e non sfida. Ma in ognuna di queste pagine il vero protagonista è Enrico, perché è attraverso le sue parole che anche noi lettori possiamo vivere le età dell’arrampicata e sentirne il fascino cangiante: i rami di un albero attirano il bambino che vuole salirvi, le altezze dei muri, degli scogli e dei massi erratici tentano il ragazzino; il giovane vuole conoscere l’ebbrezza della sfida e della vertigine, per scoprire, una volta raggiunta la maturità degli anni, la grandezza degli spazi e la spiritualità dell’ascesa.
Un vero piacere, per me, leggere un brano del
Viaggio verticale davanti al pubblico



lunedì 5 maggio 2014

Massimo Tallone, L'amaro dell'immortalità, Fr. Frili


Cos’è l’amore, quel sentimento vago, indefinibile che tanta materia regala a poeti e narratori? Molti hanno tentato di descriverlo; sensazione di euforia, di ebbrezza o, al contrario, di vuoto angosciante, di sete inestinguibile. Nessun risultato: se non lo si prova non lo si conosce, si può solamente credere alle parole digerite da chi lo ha sperimentato e, magari, messo in musica.
Anche il Cardo, quell’essere quasi umano che vive in una stanza abbandonata nelle vecchie cascine di Stupinigi, anche lui, finalmente, lo ha conosciuto e ha scoperto che “si può soffrire e piangere senza ritegno al pensiero che lei possa star male, o all’idea che possa andarsene”.

Cosa fare allora per trattenere l’amata? Come rendere concreto, reale quel che è così evanescente ed effimero? Innanzitutto con il denaro, semplice; per poter mantenere colei che tanta gioia dà ai nostri occhi e al nostro cuore, per proteggerla, per farle regali. Così anche il Cardo non può più evitare queste trappole e, per la prima volta nella sua vita, cade in un vortice che lo trascina verso qualcosa di terribile e, fino a poco prima, inaccettabile: un lavoro. Non solo, ma un lavoro onesto.
Ovviamente nessuno lo deve sapere, ne andrebbe della sua reputazione; lui, il  nullafacente per antonomasia abbassarsi a firmare un contratto (a tempo determinato, non esageriamo) e ad alzarsi ogni mattina dal suo lurido futon, con le pulci e i pidocchi a tenergli compagnia, e a recarsi al supermercato per piegare scatoloni. Se dovesse spargersi la voce, sarebbe un’onta irreparabile.
Per fortuna il destino gli mette davanti uno strano personaggio che gli offre un’occasione migliore: dipingere un trompe l’oeil per una cifra ingente, anzi, smisurata. C’è solo un intoppo, per due settimane dovrà trasferirsi nelle Langhe, a casa del cliente e abbandonare la sua amata. Resisterà?
Nel lambiccarsi il cervello su questa domanda, però, il nostro pittore si è dimenticato di riflettere a fondo sulla questione più seria e cioè: ma perché diamine un miliardario dovrebbe proprio commissionare a lui quel lavoro?










venerdì 2 maggio 2014

Sara Goria, Seconda classe, Lineadaria editore


Con una istantanea dell’infanzia di Andrea entriamo, già nelle pagine del Prologo, nella sua vita, una vita segnata dal dolore fin dai primi anni, per un evento di cui il protagonista non ha alcuna responsabilità: suo fratello Carlo, ammalato gravemente, è morto da piccolo, lasciando dentro di lui un senso di inadeguatezza, di rassegnazione all’infelicità che nulla potrà eliminare.
Eppure uno scambio casuale di sguardi, un incontro dovuto solamente ad una coincidenza, sembra dare una svolta a quel destino già profondamente segnato a soli diciassette anni di età. Una splendida donna, più vecchia di lui, lo sta osservando dalla pensilina dell’autobus che entrambi stanno aspettando.
Non saliranno su quel mezzo, ma inizieranno un dialogo che li porterà ad unire i loro destini, le loro apparenti solitudini. Per la prima volta Andrea comprende cosa significhi essere ascoltato, capito e, forse, amato; capisce che il suo essere “non convenzionale” non necessariamente deve essere una difficoltà. La paura, però, è forte; questo nuovo sentimento, così potente, così pericoloso, lo spaventa facendolo ancora fuggire da se stesso.
Passano gli anni, le figure attorno a lui, che egli vede come evanescenti e di semplice contorno, tentano inutilmente di scalfire la sua dura scorza. Roberto, l’amico di sempre, procede nella sua storia sentimentalmente banale eppure felice; la madre, annientata dalla morte del figlio piccolo, passa le giornate a letto, nel torpore artificiale dei farmaci; il padre cerca al di fuori del nucleo coniugale una apparente felicità.
Poi la svolta: Andrea proverà a prendere nelle sue mani le redini del destino, a smettere di seguire i binari prestabiliti della sua storia, per poter finalmente dimenticare il passato.
Sara Goria ci affianca a questo personaggio, facendoci osservare la sua esistenza come da un vetro, come un passeggero seduto di fronte a noi, in seconda classe.



Sara Goria ha presentato in anteprima il suo romanzo Seconda classe al salone del libro di Torino, Stand "FIDARE", Padiglione 1, D44.



Cerca nel blog