giovedì 27 settembre 2012

Sport estremi

Nel corso dei secoli, l’uomo ha sempre cercato emozioni e brividi. Una volta soddisfatte le necessità primarie (mangiare, dormire al caldo e al riparo, procreare), la fantasia umana si è ingegnata di escogitare sempre nuovi modi al limite del buon senso (e talvolta ben oltre) per eccitarsi.
Fin dalla notte dei tempi il coraggio è stato sinonimo di temerarietà, nonostante siano due concetti lontanissimi tra loro. Il “vero uomo” doveva dimostrare di non temere nulla: gli scontri corpo a corpo, le belve feroci, le altezze, il calore che consuma e il gelo che mutila. Poco importa se, al termine della prova di ardimento, solo alcuni dei valorosi sopravvivevano: è la legge del più forte, una distorsione del concetto darwiniano di selezione naturale.
Col passare degli anni, anzi, dei millenni, la vita ha perso quell’alone di rischio che tanto piaceva all’uomo temerario. Così se l’è inventato. Non ci sono più duelli? Proviamo col kickboxing. Le rupi non sono più un ostacolo da saltare in fuga? Gettiamoci col bungee jumping. Volare è semplice come andare in treno, e anche meno rischioso statisticamente?
Prendiamo un telo di nylon, leghiamo delle cordicelle alle estremità e buttiamoci nel vuoto con quello. 
E poi ancora. Mettiamoci gli sci e lanciamoci in un canale ghiacciato, sormontato da un bel mucchio di neve fresca e instabile, magari cantando uno yodel a squarciagola. Scendiamo lungo un torrente impetuoso, ricco di belle rapide roboanti, non in canoa (troppo semplice), ma aggrappandoci alle rocce umide che lo affiancano.
Misteriosamente, la montagna ha da sempre fornito ambienti e occasioni per cercare il brivido (e l’ospedale più vicino). I suoi dolci pendii, i boschi accoglienti, i laghetti scintillanti, pur decantati dagli animi più poetici, come quelli di letterati e pittori, non suscitano simpatia nel “vero uomo”. Ma i suoi spigoli, le voragini, le cime aguzze, gli imprevedibili corsi d’acqua, in ogni stagione e in ogni stato fisico, esercitano un fascino magnetico, e l’eroe ci casca, in tutti i sensi.
Ma vorrei qui sottolineare un tipo ben diverso di eroe della montagna, un imprevedibile soggetto che tanti grattacapi dà al Soccorso Alpino: è l’ottuagenario cercatore di funghi.
Quando le prime nebbie strisciano lungo i pendii boscosi, ecco che il vegliardo, in piedi almeno alle cinque del mattino, parte col suo cestino e il fido bastone. Non saluta nessuno, non avverte parenti e amici del suo vagabondo e solitario cercare, non avvisa moglie, figli o amici della sua destinazione. Lascia la macchina in un parcheggio in vista, in una borgata frequentata e poi, con un sogghigno furbesco, devia in sentieri che solo la sua mente vede tra gli alberi. Conosce cenge muscose, massi erratici dalle ombre umide di porcini, radici intricate di faggi generosi; più impervio è il cammino, più probabile trovare zone sconosciute, con moltitudini di succulenti miceti.  
Nel suo prolungato scrutare per terra, però, dimentica di alzare lo sguardo al cielo, o semplicemente sul quadrante del suo orologio: ogni foglia può celare un gruppetto di funghi e il domani è troppo incerto per aspettare. Non si accorge, il tapino, del calare delle tenebre, che sopraggiungono furtive; così, inaspettatamente al buio, sorpreso e spaventato come una Biancaneve inseguita, affretta il passo verso la macchina, rischiando ad ogni momento di inciampare o rotolare lungo il pendio. Le rotule vegliarde, il metatarso logoro non gli sono d'aiuto e le subdole foglie umidicce gli tendono continui tranelli. 
Per questo la sua passeggiata spesso si conclude non nella buffa casetta di nani barbuti, bensì sulla barella di altrettanto barbuti ragazzoni vestiti di rosso, con una croce bianca in campo giallo cucita sul petto. 

lunedì 24 settembre 2012

Piove


La pioggia in montagna ha un sapore diverso; sa di foglie, di terra e di neve, in qualunque stagione.
Oggi è fredda, sembra che in ognuna di queste grosse gocce ci sia un anima gelata. Cadono da un cielo color fumo, percuotendo le spalle della giacca impermeabile, infilandosi nel collo, se appena ci si dimentica il colletto abbassato. Non si può usare l’ombrello in montagna:  non si passeggia sulle strade in salita, sui sentieri fradici, con la mano alzata a reggere un manico curvo; non si ascolta il canto delle foglie sotto una cupola di nylon. Un cappello di panno, un berretto di lana infeltrita proteggono e riscaldano, e lasciano le mani libere di infilarsi in tasca o di scostare davanti al nostro viso un ramo gocciolante.
La pioggia in montagna è vivace, discola, non resta uguale, ma saltella qua e là, illude con brevi lampi di sole per poi tornare ridacchiando a inondare i balconi ornati di panni stesi. E durante queste brevi tregue, lungo i pendii erbosi, che per tanti giorni sono rimasti aridi e gialli per la sete, le nuvole risalgono veloci, evaporano con timore, non osando alzarsi da terra, e accarezzano la salita come fantasmi benigni.
Poi ricomincia, non all’improvviso, ma con piccoli cenni discreti. E a quel punto la pioggia cade e non si ferma, scivola sulle strade, forma piccole pozzanghere, e corre nei rigagnoli, nei torrenti e trascina a valle tutto quello che la valle non vorrebbe ricevere. Cumuli di foglie marce, tronchi abbattuti dal vento impetuoso del giorno prima, rami, rottami abbandonati da turisti incauti; tutto scivola nel greto dei torrenti e si blocca nei ponti, forma dighe estemporanee, raccoglie tonnellate d’acqua che non aspettano altro che di rovesciarsi nei fiumi sotto di loro con energia esplosiva.
Ma arriva, dalle cime gelide e amiche, una corrente glaciale e le grosse gocce accettano il gelo e l’anima diventa cristallo, costellazione perfetta che si posa e non scivola.
E la pianura gioisce.

 

sabato 1 settembre 2012

26 agosto

E' sera, il sole è finalmente coperto di nuvole che promettono pioggia. Il caldo è torrido e dobbiamo andare in terrazzo, a cercare il minimo refolo d'aria.
E ad un tratto ecco le rondini. Volano sopra le nostre teste, d'un volo basso, lento, casuale. Il loro verso è dolce, morbido; la loro danza sempre più vicina, a ricordarci l'arrivo della pioggia.
Restiamo con il mento alzato, ad osservarle volteggiare in linee aggraziate, senza uno schema apparente; sul nostro volto un sorriso stupito per questo inaspettato regalo.

Riflessi


La casa era spuntata quasi all’improvviso, come per un incantesimo: un giorno non c’era e il giorno dopo eccola là, in mezzo a quell’erba alta, incolta, circondata di macerie.
La rete arancione era stata tolta in tutta fretta; qualcuno si era preso la briga di pulire  e, al posto di quella lurida betoniera, era apparso il cartello “Vendonsi appartamenti”, con quel tono ufficial-accattivante tipico delle agenzie immobiliari.
L’occhio non poteva proprio evitarla, così sfolgorante di rosso amaranto, di vetrate lucide, con i loro bravi feltrini bianchi, a simboleggiare la novità. Anzi, ci si chiedeva come fosse stato possibile, fino a pochi giorni prima, ignorarla, nascosta solo da una rete da cantiere.
Anche Margherita l’aveva notata. Ogni giorno era passata lì davanti con le sue compagne, senza far caso a quella recinzione, a quelle disgustose erbacce pungenti. Erano scese ogni mattina, dopo la mungitura; avevano attraversato docilmente la stradina seguendo Gian, accompagnate dal Nero, che non abbaiava nemmeno più, tanto erano abituate. Ed ogni sera, molto prima del tramonto, erano ritornate alla loro stalla, fresca e pulita, con i loro vitellini al fianco e le mammelle gonfie.
Poi un mattino, col sole che brillava già alto in quell’inizio estate, la rete era scomparsa.
E adesso Margherita era lì immobile, davanti a quella vetrata spaziosa e invitante; se ne stava lì, con le pesanti zampe ben piantate nel terreno polveroso, ad osservare con occhi buoni quella sua gemella senza odore.
- Muuu – fece alzando il muso, e la gemella la imitò, osservandola dalla grande vetrata al pian terreno.
- Muuu – fece ancora Margherita, avanzando di un passo verso la nuova compagna che, sfrontatamente, muggiva verso di lei, forse aggressiva.
La vacca bonaria, la preferita di Gian, che ogni autunno la portava alla fiera più per averla al fianco, che per esporla, si mosse ancora in avanti, dimenticando il suo carattere mansueto e la sua dolcezza. Bisognava subito chiarire, con quella lì, di chi era il pascolo, di chi era il sentiero. Che non si mettesse in testa, lei, che non profumava nemmeno di buon letame fresco, di imporre la sua presenza.
-Wof! Wof! – latrò all’improvviso il Nero, comparso, chissà come, al fianco di quella impertinente.
- Wof! – ripeté, questa volta all’orecchio di Margherita, che voltò il grande muso con tutta la rapidità di cui era capace, trovandosi il cane proprio davanti alle larghe narici. Il cane abbaiò ancora un paio di volte, poi si mosse sul sentiero e la vacca, lentamente, si avviò verso il pascolo con le sue compagne, certa che il Nero avrebbe risolto tutto, come sempre.
La sua gemella, rassegnata, si voltò e si incamminò oltre il vetro, scomparendo alla loro vista.

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