mercoledì 25 marzo 2015

Arnaldur Indriðason, Le notti di Reykjavik, Guanda

Pubblicato in Islanda nel 2012 e in Italia alla fine del 2014, Le notti di Reykjavik ci mostra un Erlendur Sveinsson ancora giovane, facendo un salto all’indietro nel tempo, quando il poliziotto era un semplice agente di pattuglia, con l’incarico di partecipare a ronde notturne di controllo.
Siamo negli anni Sessanta e Reykjavik è una città ancora molto ancorata alle tradizioni islandesi, eppure forti contraddizioni sembrano percorrerla. Nonostante una profonda e radicata civiltà (una coscienza sociale che noi italiani dovremmo invidiare con tutte le nostre forze), il degrado è forte e ben visibile. L’alcol è una piaga diffusa in ogni ceto ed attraversa quartieri e generi senza distinzione. Le violenze familiari sono frequenti quanto gli incidenti stradali causati da ebbrezza.
A sottolineare la cupezza e l’imbarbarimento della società è l’ambientazione prevalentemente notturna del romanzo; una notte estiva, dunque brevissima, che vede un’alba rapida sopraggiungere ben prima del suono delle sveglie. Ma in quelle scarse ore di buio emerge il lato più sinistro della popolazione, il più desolato. È la solitudine, forse, l’unico elemento comune tra i molti personaggi, a partire dal protagonista, fino alla vittima; solitudine non dettata dalle condizioni di vita, piuttosto uno stato d’animo permanente.
La vittima è un senzatetto, trovato morto in una torbiera allagata, un semplice stagno in cui nessuna persona lucida e sana di mente avrebbe potuto annegare.
È accaduto un anno prima, ma Erlendur non riesce a dimenticarsi di lui, di quel barbone scorbutico che, in qualche modo, lo aveva colpito. Perché? Per quale motivo continuano a tornargli in mente i loro incontri, sempre dovuti a ubriachezza o a situazioni al limite della legalità? Certamente uno dei motivi è il passato di Erlendur, che qui è ancora più vicino: il fratello scomparso da bambino, durante una passeggiata in un bosco e mai più ritrovato. Questa scomparsa lo perseguita ogni giorno, obbligandolo a seguire ogni caso di sparizione, portandolo a vivere alla continua ricerca di qualcuno o di un perché.
Questo è il motore che spinge il poliziotto ad indagare, senza l'autorizzazione dei superiori, non avendo i gradi e neanche gli indizi per seguire l’iter regolare. Erlendur comincia a ripercorrere le misere tracce lasciate da quell’uomo: un rifugio in un tubo del teleriscaldamento, una stanza lurida mezza bruciata, una sorella e un fratello che hanno preso le distanze da lui. Il passato di Hannibal emerge pian piano, mostrando una verità fatta di dolore e solitudine ancor più profonda, fino alla rappresentazione della scena completa e alla soluzione.
Narrato in terza persona, il romanzo segue Erlendur passo per passo, nei centri di accoglienza e nei sobborghi più poveri della città. L’autore scrive con una prosa scarna e fredda, che non mostra le emozioni o i sentimenti, ma li lascia dedurre al lettore tramite le azioni e le parole dei personaggi. Le frasi sono dirette ed essenziali, come il protagonista, che non mostra la sua anima nelle pochissime riflessioni, sempre legate al caso.
Scopriamo così la giovinezza del cinquantenne divorziato, con due figli problematici, che avevamo conosciuto negli altri libri di Indriðason e comprendiamo anche qualcosa di più della sua personalità complessa. Del suo passato sapevamo già ciò che era necessario, la sua vicenda personale devastante, narrata senza enfasi dallo scrittore, lo mostrava al lettore come un’anima in cerca di sollievo.
Il personaggio di Elinborg, la collega solare, madre di famiglia, qui non è ancora presente, ma molte sono le figure femminili ad accompagnarlo nell’indagine. La sorella della vittima, la sua amica di sventura Oddny, e la fidanzata di Erlendur, titubante nel chiedere amore ad un uomo chiuso in se stesso.
Eppure il personaggio che emerge dalle pagine di questo bel giallo è profondamente umano; la sua correttezza e la sua grande empatia si nascondono nei silenzi, cui egli ricorre per difesa e per una mai confessata paura di soffrire ancora.

martedì 10 marzo 2015

Francesco Muzzopappa, Affari di famiglia, Fazi

Come scelgo i libri che leggo? Non mi riferisco a quelli che valuto, revisiono, recensisco o presento, che di solito non scelgo; parlo dei libri che leggo per svago, nel cosiddetto tempo libero.
Intendiamoci, il criterio di suddivisione tra libri scelti da me e libri letti per lavoro non è sempre ben definito: talvolta un autore mi propone un testo che è un vero piacere leggere, altre volte mi trovo con delle ciofeche comprate di mia scelta, con le mie manine, pagando con euro crocchianti e tanto entusiasmo.
Non divaghiamo. Come scelgo i libri?
Innanzitutto leggendo una quantità mostruosa di recensioni. Ho i miei critici preferiti, naturalmente, quelli che scrivono sui settimanali e mensili che compro regolarmente.
Eppure, insoddisfatta come una diva capricciosa, ne cerco sempre nuovi, che riescano ad entrare in sintonia con i miei gusti, peraltro molto ampi. Leggo la recensione, minuscola o di un’intera pagina di quotidiano, e la ritaglio, ammonticchiandone pilette sulla scrivania. Poi vado in libreria e, di solito, dimentico a casa la piletta di fogli. Fortunatamente ho buona memoria, per queste cose, e anche ottimi amici librai.

Così è accaduto per Affari di famiglia, la cui recensione mi aveva colpito per una frase che suonava più o meno così: è come leggere Wodehouse, ma ambientato a Torino.
Mio!
Poi le vicissitudini, il poco tempo, i libri già in attesa, i regali di Natale (già, anche questi fanno categoria a parte, né scelti da me né lavoro, mi sa che dovrò disegnare un diagramma di Eulero-Venn), lo hanno fatto aspettare, finché mio marito, grande scroccone di scelte, spesso da lui criticate, lo ha arraffato per primo. Ed ecco che la mia lettura serale è diventata faticosissima, con suoi improvvisi scoppi di risa, sobbalzi e “Ti leggo solo questa…” che interrompevano continuamente la mia concentrazione e le parole di Nick Hornby.
Ma veniamo alla recensione.  

La contessa Maria Vittoria dal Pozzo della Cisterna, nobile di gran classe e mondanità, versa in pessime acque; ciò che più teme, però, non è il tracollo finanziario, ormai inevitabile, bensì quel che potrebbe fare il suo terribile rampollo. Poco dotato di intelletto e cultura (leggi: tonto), Emanuele è invece bello e affascinante, così da trovare quasi inevitabile il destino di ingenuo dongiovanni. Ad approfittarne è una lunga schiera di modelle da rivista di gossip, belle e spendaccione. Ultima della serie, la fasulla Ludmilla Coprova è forse la più astuta, essendo riuscita a fidanzarsi con lui, ricevendo in pegno il koh-i-noor di famiglia.
Maria Vittoria, nonostante la sua rinomata capacità di adeguarsi ad ogni situazione, non sa che pesci pigliare e si ritrova in banca, a chieder consiglio alla fidatissima contabile, proprio nel momento in cui la banca viene rapinata.

E qui mi fermo perché dovete, ripeto, dovete leggerlo tutto, dalla prima all'ultima pagina, ovvero ai ringraziamenti che, da soli, valgono già tutto il prezzo del libro.

Cerca nel blog