mercoledì 31 ottobre 2012

Ken Follett, L'inverno del mondo, Mondadori


Di Ken Follett tutto è stato detto; su ogni settimanale, quotidiano o mensile d’Italia è comparsa una recensione del suo ultimo romanzo; eppure in qualche modo sento la necessità di parlarne, e bene.
Certamente non è una lettura che consiglierei a chiunque: le 956 pagine scoraggiano il lettore distratto e saltuario; i quasi cento personaggi, senza contare le comparse, possono preoccupare e intimorire. Eppure penso che ne valga veramente la pena.
Dopo aver lasciato a malincuore nella “Caduta dei giganti” i soldati, le loro mogli, i politici e i trafficoni al loro destino, li ritroviamo nel 1933, alle soglie della vittoria elettorale di Hitler, nel momento più cruciale della storia dell’Europa e del mondo.
Ken Follett ci guida attraverso gli anni più bui del Novecento portandoci nelle case di Berlino dei socialdemocratici che assistono raggelati all’ascesa delle camicie brune; ci mostra le difficoltà via via più assurde di un medico ebreo alle prese con le devastazioni delle leggi razziali. Ci fa conoscere un sindacalista inglese e, attraverso i suoi occhi, ci mostra le debolezze che permisero al fascino nazista di insinuarsi anche nelle menti di alcuni cittadini britannici; ci fa comprendere l’ardore che spinse giovani antifascisti di ogni nazionalità ad opporsi al franchismo nascente, combattendo a fianco del governo ufficiale spagnolo.
Leggendo le frasi scorrevoli ed avvincenti, guidiamo frenetici un’ambulanza nelle strade bombardate di Londra, passeggiamo sereni nei viali della base militare di Pearl Harbor, restando sbalorditi all’arrivo degli aerei giapponesi, attraversiamo la manica attraverso le nuvole in tempesta per gettarci con il paracadute sul territorio francese occupato dal’esercito tedesco. E infine, vediamo le rovine di Berlino e la magrezza delle vedove farsi contrasto alle parole tronfie dei politici, pronti a spartirsi la Germania come vincitori.
La storia delle nostre conoscenze scolastiche prende vita, salta fuori dalle pagine e ci trascina, anche a riprendere in mano libri impolverati negli scaffali.

 

domenica 28 ottobre 2012

Cambio dell'ora


28 ottobre, la mattina più bella dell’anno, quella in cui ci si sveglia con una luce lattiginosa che penetra dalla finestra, si guarda la sveglia e, mentre la nostra gola è già pronta ad emettere il solito grugnito mattutino, un pensiero ci illumina: è cambiata l’ora.
All’improvviso il tempo davanti a noi sembra estendersi all’infinito, e mille meravigliose possibilità si spalancano alla mente, prima fra tutte girarsi e tornare a dormire. Poi, però, tutti quei minuti ci attirano e pensiamo al romanzo appassionante sul comodino, ai pancake che non cuciniamo da tanto tempo, alla cara amica lontana che da mesi non riceve una nostra lettera. E ci alziamo, colmi di un entusiasmo che solo in quel giorno ci avvolge, zampettando in cucina con un sorriso ingiustificato sulle labbra.
Ma appena messo piede sulle fredde piastrelle, ci blocchiamo. Una sensazione strana, un idea sospesa e indefinita ci fa voltare la testa qua e là, in cerca di un qualcosa che, impercettibilmente, ci turba.
Ed ecco, lo sguardo finalmente va alla porta-finestra, a quell’alone biancastro che attraversa i vetri non pulitissimi. Increduli e ansiosi come un bimbo la mattina di Natale, avviciniamo il naso al vetro gelido e spalanchiamo gli occhi a quello spettacolo: la neve. Candidi, enormi fiocchi scivolano a terra, coprendola di un manto bianco; ricoprono le tegole dei tetti vicini, i mancorrenti dei balconi e le foglie ancora ben salde sugli alberi.
Non durerà, lo sappiamo, eppure ci sembra di non aver mai ricevuto regalo più bello.

 

sabato 13 ottobre 2012

Diritti e doveri


Leggendo un quotidiano del venerdì, con in mano tazza di caffè lungo della mia pausa di metà mattina, mi ritrovo a leggere e condividere pienamente questa frase:
“… non sarebbe giusto e doveroso levargli per sempre i diritti civili, primo tra tutti quel diritto di voto che hanno esercitato con tanta disonestà?”
Estrapolando dal contesto, ritengo che la frase fornisca comunque stimoli notevoli per la riflessione, attività per cui Michele Serra (l’autore della frase, che io stimo anche quando non condivido le sue opinioni) è fortunatamente noto.
Il diritto di voto, che noi diamo per scontato, non avendo partecipato alle lotte per la sua conquista, è obbligatorio? Perché individui che, prove alla mano, non hanno accettato le condizioni della democrazia possono comunque usufruirne? Come genitore so che un bene è tanto più apprezzato quanto è difficile procurarselo.
 
Non accade la stessa cosa con il famigerato “tempo libero”? Quando, nel 1833 in Inghilterra, le rivolte degli operai portarono ad una legge che vietava di far lavorare di notte i bambini sotto i dodici anni e per più di dodici ore al giorno quelli sotto i diciotto, si pensò, probabilmente, ad una conquista importantissima: le ore di sonno.
Adesso il tempo libero è uno spazio da occupare, da farcire con qualcosa che impedisca la noia.
Non ho soluzioni da proporre, ma credo che un maggiore attaccamento ai diritti conquistati possa derivare dal vederli anche come dei doveri da condividere per il bene della comunità, dal piccolo della famiglia, al mondo intero. 
 

venerdì 5 ottobre 2012

John Graham Davies, Ho battuto Berlusconi!, 66th and 2nd


Immaginate un pub a Liverpool, buio e affollato; si beve birra scura, si parla a voce alta, si ride. Ad un tavolo c’è un gruppo di amici; discutono di calcio, di allenatori, azioni perfette, memorabili trasferte. Ogni tanto il volume cresce, cadono pugni sul tavolo, esclamazioni sguaiate commentano la situazione economica difficile, il lavoro che non c’è, i sussidi statali che tardano. Poi scende il silenzio, la mente ritorna agli anni bui del governo Thatcher, agli incidenti negli stadi. Qualcuno fissa il boccale, qualcun altro scuote la testa; una pacca sulla spalla, un “altro giro, offro io” e di nuovo si ride e si urla.
Il lungo monologo di Kenny, protagonista di “Ho battuto Berlusconi”, è come un’intera tavolata di amici ciarlieri e brilli. Leggendo le parole di John Graham Davies, sembra di ascoltare il tono di voce dell’unico attore in scena che interpreta tutti i personaggi, e non pare nemmeno necessario guardare le immagini che, nelle rappresentazioni teatrali, vengono proiettate sullo sfondo, rendendo sicuramente ancora più coinvolgenti le battute.
Kenny è, frase dopo frase, suo padre, sua moglie comprensiva ma sanguigna; è Minty, l’amico spacciatore; è un direttore di banca, un tifoso, un poliziotto; è un ragazzino di periferia, un giovane disoccupato, un padre pieno di debiti e sogni, pronto a tutto per seguire la squadra del Liverpool anche ad Istanbul.
L’umorismo di Davies è politicamente scorretto, anche volgare; incarna perfettamente lo spirito scouse, cioè di Liverpool, come spiegano Pietro Deandrea e Marco Ponti, i traduttori, nella postfazione del libro.  Un umorismo ben lontano da quello inglese, ma perfettamente in sintonia con un pubblico italiano. E con l’Italia il libro ha un legame notevole, a cominciare dagli eventi tragici narrati da Kenny, come la tragedia dello stadio Heysel di Bruxelles, per finire con la clamorosa sconfitta di Berlusconi, in qualità di proprietario del Milan.
Tra le frasi spassose o malinconiche, in mezzo agli eventi della politica britannica degli ultimi quarant’anni, serpeggiano i grandi successi calcistici della sua squadra del cuore; raccontati, anzi, vissuti in modo trascinante, anche per chi, come me, pensa che il calcio sia quello che si giocava nel prato dietro casa, con un pallone di plastica Tango.

 

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