martedì 24 luglio 2012

Ronald E.Capps, Una canzone per Bobby long, Mattioli

Vivere ai margini della società è una frase che definisce la società come un insieme chiuso, con dei confini, dei limiti, oltre i quali si è qualcos’altro. E cos’altro? Le denominazioni si sprecano: irregolari, extracomunitari, borderline, emarginati, perdenti e chissà quante altre che Bobby Long, esimio ex-professore universitario, sarebbe in grado di dare e di contestare nello stesso momento. Forse è proprio per questi confini che lui e Byron, ex-insegnante alcolista, sono usciti dalla società stessa, probabilmente senza neanche rendersene conto. Le loro giornate si trascinano tutte uguali, nei sobborghi di una New Orleans ancora non devastata da Katrina, in stanze scrostate, senza letti o tavoli, ma piene di libri e bottiglie vuote. Le donne si offrono alle loro voglie insaziabili sentendo un fascino che la sporcizia e l’alcol non hanno cancellato.
In questo mondo a parte, l’ingresso della sedicenne, splendida, Hanna è un vento fresco, una primavera lenta ad arrivare ma persistente. E’ la figlia di Lorraine, bulimica amante di entrambi gli uomini, morta di infarto, piena di rimpianti per la figlia.
Con la tranquillità dei personaggi di Steinbeck, Bobby e Byron si prendono cura della loro”passerina”. Con un secondo fine? Può darsi, ma spesso è difficile, per chi ha deciso di dimenticare le regole della vita civile, accettare le proprie qualità.




Da questo romanzo è stato tratto, nel 2004, un ottimo film, uno dei pochi film che superano, per bellezza e completezza, il libro. In questa versione, Bobby e Lawson non sono solo amici, ma professore e assistente, ambedue cacciati dall’università. C’è tra loro un rapporto di dipendenza, alimentato da sensi di colpa, che trascina entrambi senza apparente redenzione, in lunghe giornate di apatia amara.
L’apparire di Purslane, il cui nome vuole evocare la delicatezza e perfezione della ragazza, sarà la scintilla che farà scoppiare il loro fragile equilibrio, donando loro l’occasione per uscire da una vita inutile e disperata.
Grazie alla fotografia spettacolare, alle musiche e ai caratteristi, la cui recitazione non è mai eccessiva, il romanzo di Ronald Everett Capps acquista un calore tipico degli stati del sud. Le citazioni letterarie e i dialoghi curatissimi rendono viva e plausibile una favola contemporanea a lieto fine.

giovedì 19 luglio 2012

Vuoi essere montanaro?


Ci sono sicuramente diversi ostacoli per chi, da una città della pianura, si trova costretto a trasferirsi, anche solo per una breve vacanza, in un paese di montagna; come del resto è certo il contrario. Il primo si troverà ad affrontare salite ripide, discese impervie e rimarrà stupito di fronte ai marciapiedi dalla forma fantasiosa, che si allargano e restringono in modo imprevedibile e creativo, quasi un progetto di Gaudì. Il secondo ammirerà stralunato la lunga linea dell’orizzonte, le proporzioni gigantesche della prospettiva a perdita d’occhio, la chiassosa e continua fila di automobili.
Eppure, nel lungo periodo di adattamento necessario, uno dei maggiori ostacoli sarà l’uso del clacson.
Nella città di pianura, al conducente patentato, questo necessario strumento può servire:

1: per sollecitare con piccoli colpi l’automobilista fermo al semaforo di fronte a lui mentre scrive un appunto, si passa il rossetto, cambia il CD, esplora con dita diverse le sue cavità nasali.

2: sveltire il pedone che attraversa, con cane al guinzaglio, sulle strisce.

3: precedere la salva di gestacci indirizzati a chi gli ha tagliato la strada all’incrocio.

Nelle stradine di montagna il suddetto strumento serve per:

1: salutare l’edicolante appoggiato allo stipite della porta

2: salutare lo zio affacciato alla finestra del primo piano

3: precedere la salva di gestacci indirizzati al barista che ha perso l’ennesima partita di calcetto la sera prima.

4: ultimo, ma non per importanza, segnalare il proprio arrivo all’ennesima curva, onde evitare lo scontro o anche solamente lo struscio contro l’auto proveniente in direzione contraria.

Questo è indubbiamente l’uso più difficile da apprendere per i neo-montanari, che dovrebbero, prima del trasloco definitivo, seguire un apposito corso. Tenterò di riassumerne qui i punti principali.
Innanzitutto il montanaro è un giocondo personaggio, generoso e altruista sicuramente; eppure siate certi che suona il clacson in curva non per avvisare voi in un gesto di amorevole lungimiranza; quindi, arrivando ad un tornante, o anche ad una semplice curvetta priva di visibilità, se sentite lo squillante beeep, suonate anche voi. Non è un saluto, è prevenzione.
Inoltre, nonostante le strade di montagna possano sembrare completamente abbandonate a causa di buche, piccoli massi dimenticati sul ciglio o alberi abbattuti dal vento lungo i rigagnoli a bordo strada, sappiate che così non è. Quindi è possibile (credetemi, lo è veramente) incrociare qualcuno proveniente dalla direzione opposta.
Da ultimo, sebbene sia risaputa la naturale giovialità degli abitanti dei paesini suddetti, essi non suonano il clacson per dare il ritmo alle canzoni che cantano a squarciagola seduti sui loro sedili del guidatore; se non in rare occasioni, solitamente precedute da un matrimonio o da una festa patronale.
Informarsi sul sito dell’ufficio turistico prima di intraprendere un viaggio o una gita.




sabato 14 luglio 2012

Anne Tyler, Guida rapida agli addii, Guanda

Ogni singola vita può essere raccontata come un romanzo; ma quando si tratta della vita semplice di un uomo normale, che nelle sue peculiarità non ha nulla di emozionante ed originale, solo un grande scrittore riesce a trasformare la quotidianità in narrazione.
Aaron è impiegato nella casa editrice di famiglia, una azienda che si occupa di pubblicazioni a pagamento e di manuali di facile vendita. Ha un leggero handicap di cui non sembra preoccuparsi, salvo poi irritarsi quando qualcuno glielo fa notare; una sorella protettiva che lavora con lui, di cui però teme da sempre il giudizio;  una bella casa e una moglie. Ma questo solamente ad un primo, superficiale sguardo.
A trentacinque anni resta vedovo, a causa di un incidente banale ed evitabile. La sua vita, al contrario di quello che potrebbe accadere, non viene sconvolta, ma, giorno dopo giorno, subisce mutamenti appena percettibili, eppure radicali. Lasciandosi trascinare dal destino, senza opporre una troppo vigorosa resistenza, Aaron si trasferisce da sua sorella e inizia suo malgrado la ristrutturazione della casa. Dopo un periodo di solitudine, ricomincia a frequentare gli amici e i parenti, non più, come in precedenza, in modo passivo, ma scegliendo il modo e il momento.
In questo percorso, ad un tratto, compare la figura di Dorothy: non un ricordo sfumato, ma una vera persona, che gli appare al fianco nei luoghi più improbabili. Poche frasi pronunciate dalle sue labbra saranno il punto d’avvio per una riflessione sempre più cosciente di quel che era il loro matrimonio, fino a condurre il protagonista ad una consapevolezza mai conosciuta.

domenica 1 luglio 2012

Mary Ann Shaffer, La società letteraria di Guernsey, Sonzogno


La capacità di un autore nel raccontare gli orrori di una guerra sta anche nel non cadere nel facile consenso del tragico, del raccapriccio, della lacrima a tutti i costi. Questo è indubbiamente uno dei pregi dell’unico romanzo scritto da Mary Ann Shaffer, a solo un  anno dalla sua morte. Bibliotecaria e amante dei libri per tutta la vita, creò il personaggio di Juliet Ashton dopo un viaggio all’isola di Guernsey, una delle isole del Canale della Manica, occupate dai nazisti come punto strategico all’inizio del conflitto.
Siamo nel 1946, in una Londra devastata dai recenti bombardamenti; Juliet, scrittrice che ha raggiunto la fama grazie ad una raccolta di articoli pubblicati durante la guerra appena terminata, viene contattata per lettera da un gruppo di persone che, per un caso assolutamente fortuito, hanno creato la Società Letteraria della Torta di patate. Le diverse personalità attirano la sua curiosità di scrittrice e le suggeriscono l’idea di un nuovo libro. Grazie alle diverse lettere inviate da lei e da tutti coloro che bene o male partecipano alla vicenda, nasce un romanzo corale in cui gli episodi terribili della guerra, dell’occupazione e della deportazione, diventano il motore di una rinascita, e lo spunto per episodi di puro divertimento.

Galline ovaiole

La signora Cesira (nome rigorosamente falso per rispettare la sua privacy, parola di cui ignora sicuramente il significato) vive in una casetta di mattoni, con il tetto in coppi che crede vecchi, senza sapere che potrebbe venderli a sessanta centesimi l’uno, se solo le interessasse venderli.
Nel suo cortile, dove arrugginisce indisturbata una vasta esposizione di attrezzi decrepiti, razzolano sei paffute bionde piemontesi.  Nonostante ad un occhio inesperto possano sembrare cloni di una stessa gallina-donatrice, la signora Cesira le riconosce senza fatica e ogni mattina, anche quando piove ininterrottamente da diversi giorni, anche quando la neve ha ricoperto tutto il cortile e trasformato in un parco norvegese i suoi ferrivecchi da contadino, entra nel pollaio e versa nella grande ciotola un minestrone di pane avanzato, bucce miste e foglie di cavolo o insalata. Poi si affaccia al nido prende le uova.
Le galline vanno trattate bene:  devono avere la loro zuppa tutti i giorni, calda in inverno; devono dormire sulla paglia pulita e asciutta e, soprattutto, ascoltare un po’ di chiacchiere in compagnia, come ogni creatura che si rispetti. Questo pensa la signora Cesira; in fondo sono le sue migliori amiche. E quest’anno Brunetta compirà diciotto anni; è un po’ spennacchiata, come lei dopotutto.
Vicino alla sua casetta, c’è un allevamento intensivo. Gli odori che escono da quelle stalle non piacciono alla donna; quei mangimi, quelle deiezioni sintetiche le ricordano la sua unica visita all’ospedale, quella volta che suo nipotino, che stava diventando davvero bravo a piantare i chiodi, le aveva schiacciato il pollice con il martello. Preferisce che i campi, le stalle abbiano quel buon profumo di letame vero.
Ogni tanto, più o meno due volte all’anno, il signor Rossi (anche questo è un nome di fantasia, benché molto poca) finge di passare davanti al suo cancello per puro caso e, dopo tre o quattro stupidi convenevoli, ci riprova e le chiede di comprare la sua cascina.
- Pensi come starebbe comoda in una stanza riscaldata, con cuochi che cucinano per lei e nessun animale da accudire. –
Lei sorride e finge una speranza che non sente: - Eh, chissà se riuscirò mai – commenta guardando lontano.
- Se vuole, le compro tutto io, anche le galline, tanto sono vecchie. – Le osserva con fare sapiente – avranno almeno cinque o sei anni – conclude.
La signora Cesira fa una faccia strana, alza le sopracciglia e le spalle contemporaneamente e sospira. Allora il signor Rossi gira i tacchi e torna dalle sue bestie puzzolenti, biascicando un “Buongiorno” a metà bocca.
La donna lo guarda allontanarsi caracollando come un cow boy (questa parola la sa, e anche “Dvd”, quelli con i film di John Wayne che le ha regalato sua figlia) poi si alza e se ne va nel pollaio a raccontare l’ultima avventura del signor Rossi alle sue galline.


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