giovedì 20 febbraio 2014

Antonio Manzini, La costola di Adamo

Ad Aosta la pioggia di marzo non annuncia la primavera, non è la pioggerellina tiepida che sveglia i prati e i fiori di Roma; è gelida, con un’anima di neve; si infila negli scoli e nei torrenti, scomparendo da qualche parte, ma lasciando fradici tutto e tutti.
Il vicequestore Rocco Schiavone, giunto al suo nono paio di Clarks in sei mesi, ancora non se ne capacita; da abitante della capitale stenta a credere che qualcuno possa non solo vivere ad Aosta, ma anche trovarcisi bene.
Certo, qualche cosa buona anche in quella fredda città, abbarbicata tra i monti più alti d’Italia, si può trovare. Belle donne, ad esempio, con le caviglie snelle che si destreggiano sui tacchi laddove per lui è difficile camminare con i doposci;  vini niente affatto male, nonostante l’altitudine dei vitigni, come il Blanc de Morgex che scende beato lungo la gola; e poi montagne spettacolari e cieli che, nei rari giorni di sole, splendono e stupiscono.
In questo secondo romanzo, il vicequestore Rocco Schiavone sta tentando di adattarsi a vivere in questo mondo freddo e silenzioso, anzi, sta tentando di adattarsi a vivere e basta.
In fondo per lui “casa” è un sostantivo che ha perso il significato più intimo e personale: non è più il calore di un ritorno, un rifugio per abbandonare al riposo le proprie stanche membra, un nido dove accoccolarsi. La sua casa di Roma è vuota e i mobili aspettano di essere consumati dai tarli, sotto spettrali lenzuola. Il suo appartamento di Aosta è un televisore, un frigo gelido e un letto ancor più freddo.
E poi cos’ha di diverso Aosta dalle altre città italiane? Anche lei nasconde del marcio qua e là; traffici di droga, di refurtiva; immigrazioni non proprio alla luce del sole. Ecco, forse nel suo ufficio ritrova un po’ di se stesso, tra i colleghi validi o incapaci e i delinquenti da scoprire e, possibilmente, arrestare. L’anima di Rocco, ormai spenta, trova vitalità nelle indagini da seguire con cura e attenzione e anche con un po’ di cuore. Del resto come si potrebbe restare indifferenti davanti ad un cadavere di una donna, una donna che è stata percossa violentemente e poi impiccata?
Le donne non dovrebbero mai essere maltrattate, neanche dal tempo: invecchiare è una cosa da uomini.

Incontro Antonio Manzini, alla Casa dei Libri di Rivalta: scrittore, sceneggiatore, regista e anche attore.
«Non più, quello è un capitolo chiuso» la sua, più che una constatazione, sembra una minaccia.
E pensare che io, appena l’ho visto entrare nella Casa dei Libri, mi ero immaginata un perfetto Rocco Schiavone con le sue fattezze. Glielo dico.
«Guarda, ho il terrore di sentirmi dire che faranno dei telefilm dai miei libri» e un sorriso lo percorre, come un’ombra. «Già mi sento il regista: “Guarda Antonio, dobbiamo cambia’ un poco, rendere più televisivo”. E’ tutta una questione di Auditel, e non so se mi va».
Del resto Rocco è la sua creatura, l’ha pensato, visto, immaginato prima ancora di scriverlo. Come nasce il vicequestore Schiavone?
«E’ nato a Champoluc. Me ne stavo su quelle piste meravigliose, quando un amico mi dà un passaggio sul gatto delle nevi. Era ripidissimo e io mi vedevo già rotolare e finire sotto i cingoli, quando penso: “E perché no? Un cadavere nascosto sotto la neve, maciullato dal gatto, di notte…” ed ecco il primo caso».
Sulla neve delle montagne della val D’Ayas, un vicequestore romano, nato e vissuto a Trastevere, cosa ci fa?
«Da solo non ci sarebbe mai andato, lui odia la neve. Si ostina a calzare le Clarks che riduce a stracci in pochi giorni, si mette il loden perché crede sia adatto. Non lo sa che gli altoatesini il loden lo portano d’estate».
Il pubblico della libreria scoppia nella prima delle tante, innumerevoli risate. Manzini è un affabulatore, racconta di sé, dei suoi libri e trascina la gente accalcata per lui con le sue parole.
«A me piace la neve» continua ammiccando, «sia ben chiaro, ma lui, poliziotto di origini povere, nato e cresciuto con i peggiori delinquenti del quartiere, ci va solo perché obbligato»
La sua è una vera punizione, per essere intervenuto in un caso di stupro seriale dove l’imputato, per sfortuna del vicequestore, era il figlio di un segretario di partito. Meglio della prigione, comunque.
«Rocco ha un’idea tutta sua della giustizia, anche perché sa che in Italia, prima di arriva’ al processo, ha’ voja!»
Lui si fuma gli spinelli, lascia andare i piccoli delinquenti, e magari interviene personalmente su quelli che tanto non verranno puniti. Non hai paura che qualcuno dica che i tuoi romanzi sono diseducativi?
«Embè? Mica voglio fare la morale. Rocco ha tanti difetti, ma ha anche un passato terribile. La moglie non c’è più, anche se lui continua a parlarle, e per lui non c’è nessun’altra donna, almeno nel suo cuore. Per il resto, sono esigenze fisiche, a lui piacciono le donne, non riesce proprio a resistere».
Nei ringraziamenti della Costola di Adamo scrivi:
Al 21 novembre dell’anno 2013, anno in cui ho scritto il libro, i casi di femminicidio in Italia sono stati 122.
Cosa si può fare per fermare questa violenza?
Scuote la testa e gli angoli della bocca si piegano in una smorfia delusa:
«Ma cosa vuoi fare, quando uno è cresciuto a sberle e calci… Niente, per questo anche Rocco aggira la giustizia» il suo sguardo è eloquente.
« E ricordate che con “femminicidio” si intendono solo gli omicidi il cui movente è dovuto al fatto che la vittima era una donna, non, chessò, la proprietaria di una gioielleria. Uccidere la propria moglie per gelosia, la fidanzata, la figlia della compagna per farle violenza è una cosa imperdonabile»
E con lui commentiamo: finché il numero non si azzererà, non potremo definirci un paese civile. 


giovedì 13 febbraio 2014

Quale futuro per la montagna?

Tre incontri-dibattito al CAI di Giaveno. Il 12 febbraio, 12 marzo e 16 aprile.

Chiedersi quale futuro possa esserci per la montagna può sembrare una domanda futile. Viste come emblema stesso dell’immobilità, le montagne hanno attraversato negli ultimi sessanta, settant’anni, sconvolgimenti di tipo ambientale e sociale che, semplicemente ripescando nella nostra memoria e in quella dei nostri genitori, riusciamo perfettamente a ripercorrere.

L’abbandono che ha spopolato le centinaia di borgate della val Sangone, che ha soppiantato le coltivazioni e i pascoli sostituendoli con boschi selvatici, che ha fatto crollare muretti di contenimento e riempito i torrenti di detriti era comunque causato da ottime ragioni: la difficoltà della vita, degli spostamenti, talvolta la povertà dovuta alla vita semplice e ai rischi che comporta un lavoro basato sui cicli naturali. Tutto questo ha spinto una intera generazione di montanari a scendere verso la pianura, attirati da un lavoro certo, sebbene talvolta svilente e monotono, e dalle nuove comodità portate dal boom economico.
Cos’è cambiato però in questi ultimi dieci, vent’anni, che ha portato alcune persone, soprattutto giovani, a lasciare la città e ad aprire nuove aziende sulle Terre Alte? Perché molti di loro, dopo anni di studi, freschi di laurea, hanno preso in mano la motosega e la zappa e riaperto all’agricoltura e all’allevamento appezzamenti inselvatichiti dai rovi e dai frassini?

E ancora, come sarà possibile che queste nuove, piccole comunità, talvolta composte da una sola famiglia, mettano le radici e creino le premesse per un nuovo massiccio ripopolamento?
A queste domande e a molte altre ad esse legate tenteremo di dare non tanto una risposta, quanto una giusta direzione, in una rassegna di incontri alla sezione CAI Giaveno, nelle date del 12 febbraio, 12 marzo e 16 aprile.

I presenti saranno invitati a portare la loro testimonianza e arricchire così una discussione che sicuramente resterà aperta, ma che, al termine della rassegna, avrà certamente indicato nuove possibilità.

Per chi avesse una testimonianza da portare, o semplicemente volesse assistere agli incontri:
info: mariateresa.carpegna@gmail.com
info: info@caigiaveno.com

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