venerdì 25 dicembre 2015

La notte di Natale

Il piccolo campanile era finalmente visibile. Dopo quasi due ore di cammino, la chiesetta era spuntata dietro una costa rocciosa e con essa la bassa costruzione addossata al suo fianco, come una protuberanza.
Non era stanco, nonostante il terreno fosse gelato e avesse lasciato la strada asfaltata almeno un’ora prima, per seguire il sentiero che si inerpicava nel bosco. L’aria era gelida e gli sferzava il volto non appena il percorso abbandonava gli alberi per qualche metro di radura. Il sole era tramontato già da tempo, ma una luna piena luminosa lo accompagnava sorniona, incurante del suo destino.
Luca si concentrò sui suoi passi, tentando di scacciare l’amarezza; rocce ghiacciate, foglie secche ricoperte da un leggero strato di brina, qualche radice affiorante e scivolosa. Non era mai stato lì con Beatrice, che amava le cime, le camminate impegnative, i rifugi d’alta quota. Nella bella stagione si poteva arrivare con la macchina a pochi passi dallo sperone di roccia su cui la chiesetta era stata edificata, e l’unica attrattiva era l’ampio panorama che si vedeva da lassù, attrattiva che non riusciva a catturarla. Con lei le montagne dovevano essere una palestra, un’avventura, talvolta una sfida.
Il piede scivolò su un grosso sasso e Luca tornò a concentrarsi sulla meta, ormai a poche decine di metri. Sapeva che la porta era aperta: non c’era nulla da rubare là dentro e l’eremita che aveva abitato lì fino a qualche anno prima aveva sempre accolto chiunque passasse, per caso o per scelta. Un po’ di pane, un formaggio d’alpeggio e un pintone di vino non sempre favoloso diventavano uno spuntino o una cena da condividere con lui, scambiando quattro parole schiette, mai banali. Poi se n’era andato, chissà perché.
Aprì la porta con una lieve spinta ed entrò, accolto da un odore di umido che non gli dispiacque. La chiesina aveva soltanto due panche e un tavolo, con un crocifisso formato da due rami; Luca fece un rapido segno di croce, reminiscenza degli anni infantili, ed entrò nella stanza a fianco. La stufa in ghisa era arrugginita, ma la legna era accatastata lì vicino, asciutta e abbondante. L’indomani sarebbe toccato a lui ripristinare le scorte. Non faticò ad accendere il fuoco, che prese subito vigore e diffuse un piacevole tepore nel minuscolo spazio.
Si sedette sulla branda ed estrasse dallo zaino il pane, il salame e l’immancabile coltellino Opinel, un pasto ben diverso da quello che aveva programmato: poche portate gustose in un ristorante raffinato e non troppo esotico, vino corposo e atmosfera intima, da ricordare per sempre. Beatrice avrebbe apprezzato la semplice eleganza e sarebbe stata piacevolmente sorpresa quando lui, con molta serietà, avrebbe estratto la scatolina di tasca e pronunciato le parole che potevano unire i loro destini. L’inizio della loro nuova vita la notte di Natale, la magia e l’amore, per sempre. Ma lei aveva rifiutato l’invito, con parole gentili ma definitive, senza presagire che con quel rifiuto ne aveva evitato un altro ben più doloroso.
Stranamente non fu il viso della ragazza a tornargli in mente in quel momento, ma i sorrisi dei suoi amici, che avevano organizzato la solita cena della vigilia. In quello stesso momento stavano stappando bottiglie e ingozzandosi di lasagne, arrosto e purè con le loro ragazze, mogli e, nel caso di Marco e Giulia, con i due bimbi assopiti sul divano. Aveva rifiutato il loro invito ammiccando e non c’era stato bisogno di altre parole.
Tirò su col naso le lacrime che avevano cominciato a pungere contro le palpebre. Forse non era stata un grande idea, venire fin quassù tutto solo, seguire l’impulso di un attimo che lo trascinava verso una fuga dalla realtà. Per un istante, al momento di scendere dalla macchina, ci aveva ripensato e aveva fatto dietrofront, ma poi si era reso conto di quanto la sua compagnia potesse risultare pesante quella sera, e aveva spento il motore.  Ora, nel buio di quella stanzetta, con il calore che cominciava a diffondersi dalla stufa scoppiettante, Luca fu felice della sua scelta e si abbandonò ad un pianto infantile e consolatorio.
Un rumore lo immobilizzò. Qualcuno aveva aperto il portone della chiesina. Il ragazzo si sfregò le mani sulla faccia e si alzò, evitando ogni rumore, ma era una precauzione inutile: dall’altra stanza giungevano voci allegre e tonfi di scarponi battuti sulla soglia.
Per evitare ogni imbarazzo, Luca tossì e le voci si zittirono, poi un viso barbuto fece capolino nella stanzina calda.
«Oh, buonasera, e buon Natale» disse una voce profonda. «Che bello, hai acceso la stufa. Ti dispiace?» chiese e, senza aspettare risposta, entrò e tese la mano ruvida. Poi prese dalla tasca del giaccone una bottiglia di vino e la mise sul tavolo vicino alla finestrella: «è per dopo, non per la messa» e si aprì in un gran sorriso.
Luca si alzò ancora imbambolato e seguì l’uomo, che era tornato in chiesa; di là una piccola folla si stava radunando, in un piacevole mormorio di chiacchiere e risate. Qualcuno gli rivolse un sorriso, ma tutti si zittirono quando l’uomo barbuto, che nel frattempo si era tolto il giaccone, si mise dietro il tavolo. Una ragazza intonò Venite fedeli con una voce che a Luca parve dolcissima e tutti si unirono a lei.
Di nuovo le lacrime tornarono a scorrere sul suo viso, ma non c’era più amarezza in lui. Stupore, commozione, un calore che non sentiva da anni. Ascoltò le parole che non ricordava e gli piacquero, come gli piacquero quelle del prete, sciolte, prive della facile retorica che aveva sempre attribuito alla Chiesa.
«La messa è finita» disse al termine della celebrazione, «ma restate tutti qui e tirate fuori le cibarie, che facciamo un po’ di festa».
«Era ora!» esclamò una signora robusta piazzando una torta salata, che teneva chissà dove, sull'altare. Tutti le si fecero intorno, mentre Luca, con il bicchiere di carta pieno, passava tra tutti sorridendo, nella notte di Natale più assurda e meravigliosa che avesse mai vissuto.



martedì 22 dicembre 2015

La straordinaria soggettività dello spreco

Ho appena postato il calendario di ieri, quando mi ritrovo tra le mani un articolo su un personaggio famoso (di cui non faccio il nome per motivi che capirete). La parola “sobrietà” aleggia ancora nella mia mente, come un’eco lontana, mentre scopro che questa persona, peraltro simpatica e molto intelligente, ama collezionare oggetti preziosi. Non solo, ma per i suoi indumenti cerca stoffe rare e vistose, che poi fa confezionare da un sarto che abita a centinaia di chilometri da lui.
Non c’è niente di male, lo so, ognuno di noi ha delle manie, delle passioni che per gli altri sono spese futili e anche non del tutto etiche. Però non riesco proprio ad accettare che, in un momento in cui le famiglie di piccoli risparmiatori vengono lasciate sul lastrico, nel momento in cui padri e madri di famiglia devono ricorrere al Banco alimentare per nutrire i propri figli, ci sia chi invece può sperperare del denaro.
Cerco di convincermi da sola e mi dico che, forse, questa persona fa molta beneficenza, che magari ha creato una fondazione. Poi mi autoaccuso riflettendo che anch’io spreco in cose non sempre necessarie, ma questo aggrava la sensazione e non posso che concludere che nel mondo c’è troppa disparità, che quello che io spendo per cose che ritengo assolutamente indispensabili per vivere, per molti altri potrebbe essere speso per cibo, medicinali, case, istruzione.
Così mi accorgo che quello che devo fare è aprire gli occhi, vedere al di là del mio naso e dei miei egoistici bisogni, per scoprire un mondo sconosciuto o quasi.
Mi aiutate tutti insieme?

lunedì 21 dicembre 2015

Parola d'ordine

Mi sono chiesta molto spesso in questi giorni, scrivendo i post del calendario dell’Avvento, se ci sia una parola che possa riassumere lo spirito del Natale 2015, ma non ero ancora decisa fino a ieri. Non che abbia avuto un’illuminazione, non sono il tipo che riesca a beneficiare di tali privilegi. Il fatto è che il mio post del 18 dicembre ha innescato una piccola ma proficua discussione familiare; del resto lo sapevo che parlare dell’uso di facebook e affini avrebbe toccato corde sensibili.
I punti fondamentali di questo confronto non del tutto civile sono stati quelli che riguardavano il terrorismo e l’Isis. Si può scherzare sui social su questi terribili argomenti? Non si rischia di offendere qualcuno che ha sofferto?
Sì, naturalmente, ma il rischio di offendere qualcuno è purtroppo sempre in agguato. Il sarcasmo, l’ironia non sempre vengono compresi da chi ci ascolta e tantomeno da chi ci legge, che non può sentire il tono di voce o vedere la nostra espressione.
Che fare, dunque? Non credo che evitare ogni argomento passibile di equivoci sia la soluzione, come non lo è il disinteresse verso le emozioni altrui.
Da qui la mia decisione sulla parola del Natale 2015, che è caduta su “sobrietà”. Non nel senso di “serietà”, che vieta il sorriso, la risata condivisa anche su temi seri e duri, ma nel senso di “misura”, di “moderazione”.
Si può sghignazzare sui terroristi? No: lo sghignazzo implica troppo spesso il disprezzo. Ma si può ridere, tentare proprio con quell’arma di vincere uno scontro che altrimenti  possiamo soltanto perdere. Si può cercare di coinvolgere tutti nella nostra risata, soprattutto chi ha sofferto e ha bisogno di cercare un motivo per sorridere di nuovo. E la chiave è quello di farlo con sobrietà. 

venerdì 18 dicembre 2015

Le emozioni dei social

Non sono un’assidua frequentatrice di facebook, ma non mi dispiace. È un po’ come il vecchio zapping televisivo, con notiziole brevi, video che partono da soli e che si possono oltrepassare senza sensi di colpa. Certo, ci vuole un po’ di ragion critica, con alcuni post allarmistici o categorici, e una certa elasticità mentale. In ogni caso è un valido strumento, e come tale deve essere usato.
In questi giorni, ho notato che, gentilmente, facebook mi sta celebrando anniversari immaginari, riportando alla mia attenzione post di quattro, cinque anni fa, e chiedendomi se non sarebbe davvero carino condividerli con tutti. Oggi ho avuto un suggerimento: creare un mio personale calendario del 2015. Non devo fare niente, ci pensa lui a riorganizzare i post, le foto e gli eventi che “per me” sono stati importanti.
In pratica mi gestisce le emozioni.
Devo dire che come manager delle mie stesse emozioni non sono un granché, ma preferisco comunque fare da sola. Però mi è stato utile, perché mi ha dato modo di riflettere e ho pensato che, in pratica, i social network sono contenitori e trasmettitori di emozioni. Per questo sono così diffusi e ben voluti, per questo i ragazzi, sempre assetati di emozioni, non si staccano dallo smartphone, e si iscrivono a tutti i social possibili.
È un bene? Ed ecco che scatta la mamma apprensiva, che tenta di vegliare sul futuro e sul presente dei figli. Li vedo già alzare gli occhi al cielo e sospirare rumorosamente, prima di tornare allo schermo del cellulare.
La risposta sta tutta lì: nella capacità di usare le meningi, di vagliare quello che i social presentano e decidere con la propria testa se si tratta di qualcosa di valido o di estremamente nocivo. Leggere le opinioni di tutti, assorbire le emozioni degli altri può essere deleterio, ma anche molto importante per conoscersi e per crescere.
Per questa volta posso dormire tranquilla.

giovedì 17 dicembre 2015

Le vite degli altri

Mancavano ancora dieci giorni a Natale, ma il centro del paese era tutto uno sfolgorio di luci. Si guardò intorno un po’ intimorita, ma anche segretamente affascinata. Da un lato all’altro della strada, stendardi luminosi collegavano i balconi dei primi piani, i monumenti e le case più antiche erano diventati schermi per proiezioni gigantesche: scritte di auguri, fiocchi di neve e angioletti si alternavano sulle facciate della piccola chiesa e del campanile.
Si riscosse e si incamminò lungo la strada in discesa, calpestando il porfido con le comode polacchine, sbirciando qua e là dentro le vetrine scintillanti di luci e oggetti attraenti. Era molto tardi, eppure tutti i negozi erano affollati e anche lungo la strada le auto faticavano a scansare i pedoni. Molti dovevano essere amici, perché ad ogni passo qualcuno si fermava per salutare, abbracciare e sorridere a qualcun altro. Passando accanto a questi gruppetti improvvisati, sentiva stralci di conversazioni e frasi smozzicate.
«… è stato poco bene, ma a Natale ci sarà di sicuro», «…parcheggiato così lontano che facevo prima a venire a piedi, e dire che…», «… eh, povera donna, chissà che brutto periodo…».
Le sembrava di assistere ad uno spettacolo, osservando le vite degli altri. Erano queste, dunque, le vite degli altri?
Si accorse di essere di nuovo ferma e allora, tenendo lo sguardo basso, si infilò nella farmacia, la sua meta. Anche qui c’erano molte persone, e il calore le fece appannare gli occhiali. Si sentiva frastornata e un leggero capogiro la investì, facendole perdere l’equilibrio.
«Mi scusi, mi scusi tanto» mormorò quasi tra sé, risistemandosi lontano dal signore corpulento che aveva urtato e che le rispose con un grugnito. Qui non dovevano esserci amici, perché uno strano silenzio regnava in quella folla e i volti erano scuri. Una giovane donna si avvicinò al banco con un bimbetto in braccio, infagottato in una giacca gonfia di un azzurro vivace. Lei gli sorrise e fece ciao con la mano. Il bimbo la fissò, poi si voltò di scatto.
«Mamma, quella signora è tutta nera. È cattiva!» gridò.
La giovane mamma si girò verso di lei:
«Stai tranquillo, Mattia, ha il velo, ma non è pericolosa».
Pericolosa? Ma stava parlando di lei? Si sentì infiammare dalla vergogna e andò subito al banco; il farmacista la servì in fretta, ma con molta gentilezza. Le diede una borsettina di nylon piena di scatolette e le augurò buon Natale. Lei sorrise e scappò in strada.
Il freddo ora pungeva e lei sentì le lacrime ghiacciarsi sulle ciglia; tirò fuori dalla tasca un fazzoletto ruvido e si soffiò il naso. Non si era mai sentita così strana.
Si incamminò di buon passo, ripercorrendo la strada in salita, verso casa. I negozianti  stavano cominciando ad abbassare le saracinesche e i passanti si erano diradati, ognuno verso il caldo della propria casa, della propria famiglia.
Arrivata al portoncino, infilò la grossa chiave ed entrò nell’ingresso che odorava di cera e finalmente si sentì al sicuro. Si tolse il cappotto grigio e lo mise nel grosso armadio con tutti gli altri.
«Bentornata, Francesca, era ora! Ti stavamo aspettando» le venne incontro Teresa, aiutandola a togliersi la sciarpa. «Fa un bel freddo fuori, eh?»
«Un freddo terribile, non vedevo l’ora di tornare» disse Suor Francesca rabbrividendo.
«Sia lodato Gesù Cristo» sorrise Suor Teresa, poi insieme si avviarono verso il profumo di minestra del refettorio.

martedì 15 dicembre 2015

La neve

Nino era un bimbetto di nove anni, piccolo e mingherlino e veloce come un topo, per questo tutti lo chiamavano Ninetto. Era il quarto di cinque fratelli, ma era comunque il più piccolo, perché Giuseppe, di solo un anno più giovane, era alto e robusto. Nino, forse, assomigliava a suo padre, che però non aveva mai conosciuto. Il padre di Giuseppe, invece, era un ambulante che veniva nel loro quartiere due volte all’anno, per la fiera stagionale. Sua madre si era innamorata di lui vedendolo sollevare forme di Grana come fossero cespi di insalata, tendendo le sue braccia possenti e facendole l’occhiolino.
Sua madre aveva un aneddoto per ognuno dei loro padri: il cantante folk che vagava disorientato per la via con la chitarra sulla schiena, il postino dai capelli color carota che sostituiva il vecchio Bertu quando era malato, l’allenatore dei pulcini della squadra della grande città, fino al gracile insegnante di filosofia che l’aveva incantata con le sue frasi incomprensibili, ed era diventato così il padre di Ninetto.
Ninetto era felice, ma rimpiangeva una cosa soltanto: dei nonni. Con tutti quei padri gli sembrava impossibile non avere almeno un nonno o una nonna, soprattutto oggi, la vigilia di Natale.
Quel mattino Ninetto decise di uscire di casa, nonostante facesse molto freddo. Abitava al quarto piano di un grande caseggiato, uguale a tutti gli altri della via, e anche a quelli della via a fianco, ma lui non si sarebbe mai perso: conosceva ogni angolo e ogni tombino come le sue tasche vuote.
L’aria pungeva gli occhi, tant’era fredda, e Ninetto si ficcò le mani nella tasca del giubbotto troppo grande, ereditato dal fratello.  Camminò spedito fino ai giardini deserti e si sedette su una panchina gelida.
«Cosa fai qui, tutto solo?» chiese una voce profonda.
Ninetto si voltò di scatto. Sulla panchina di fianco un vecchio con cappottone logoro lo guardava sorridendo. Ninetto sorrise a sua volta:
«Aspetto la neve» disse.
«Io ce l’ho, la neve» commentò il vecchio con fare saputello, «vuoi vederla?».
Nonetto era già in piedi accanto a lui, allora il vecchio si alzò faticosamente dalla sua panchina e, ridacchiando, si incamminò verso il punto più lontano dei giardinetti. Superarono sentierini, altalene, gruppi di alberi spogli e poi, laggiù, in un’ampia conca, ecco una grande macchia di neve fresca, bianca e soffice. Ninetto non credeva ai suoi occhi.
«Vuoi tuffarti?» gli chiese il vecchio. Il bambino lo guardò con un sorriso che occupava tutta la sua minuscola faccia.
«Allora vai!» ordinò il vecchio, scoppiando in una grassa risata.
Quando fu tutto fradicio e infreddolito, Ninetto finalmente uscì dalla neve, felice come non lo era stato da tempo.
«Ma tu chi sei?» chiese all’anziano signore, «Babbo Natale?»
Il vecchio rifece quella calda risata grassa ed esclamò:
«Sono troppo vecchio per essere un Babbo, al massimo posso essere Nonno Natale!» poi si tolse la sciarpona e gliela avvolse attorno al collo e alla testa.
«Sarà meglio che tu vada a casa, tutto bagnato come sei».
«E tu, cosa farai?» chiese il bambino già un po’ triste.
«Io? Verrò a trovarti domani, Ninetto»
«Mi conosce?» domandò stupito il ragazzino.
«No, ma conosco il tuo papà, il professore di filosofia».
«Sei il suo papà?» chiese Ninetto colmo di speranza.
Il vecchio fece un sorriso triste:
«No, ero il suo vecchio preside. Tuo padre mi ha parlato tanto di te, prima di trasferirsi, e io adesso voglio conoscerti meglio. Sai, abito nella casa vicino alla tua».

Il vecchio, che si chiamava Mario, mantenne la promessa e il giorno dopo si presentò da loro con un regalo per ciascuno dei cinque fratelli. Forse non è proprio un vero nonno, pensò Ninetto da quel momento, ma lo interpreta benissimo.

Do they know?

Do they know it's Christmas?


Era il 1984 quando Bob Geldof organizzava la raccolta fondi.
Cosa è cambiato?

Vogliamo far sapere anche a loro che è Natale?

sabato 12 dicembre 2015

Una strana avventura

C’era una volta una ragazza, che si chiamava Sofonisba. Aveva i capelli castani e gli occhi castani, e una pelle bianca come un foglio di carta di quaderno. Era bianca perché non stava mai al sole: si sarebbe riempita tutta di bolle, diceva. Ma nessuno lo sapeva, perché non era mai stata al sole.
Lavorava in un ufficio di una grande azienda, al primo piano interrato, e inseriva dati in un gigantesco schedario, che poi divenne ancor più gigantesco, per poi diventare un grande computer, man mano che gli anni passavano.
Sofonisba, ormai non più ragazza, trascorreva in quell’ufficio otto ore al giorno, poi usciva salutando tutti i colleghi, come li aveva salutati all’ingresso, e andava a casa. Abitava all’ultimo piano di un caseggiato di periferia, senza ascensore, e di questo era contenta, perché facendo le scale quattro volte al giorno riusciva a mantenersi in forma. Infatti, una volta salita in casa, si cambiava le scarpe e riscendeva i sei piani per andare a comprare la cena e per fare un giretto nella libreria al pian terreno. Ci restava fino all’ora di chiusura, poi, per due volte alla settimana, si avvicinava alla cassa e comprava un libro. Ogni giorno, da quando aveva cominciato a lavorare.
Non spendeva per null’altro che non fosse strettamente necessario: cibo, abiti caldi o freschi, a seconda della stagione, sapone e rarissimi medicinali, per quando la salute non era proprio florida. Il suo stipendio finiva praticamente tutto negli scaffali di casa sua, ormai ricolmi di volumi, piccoli e grandi, economici e rilegati, colorati o tutti bianchi. Aveva anche cominciato a creare pile di libri che dal pavimento salivano come stalagmiti verso il soffitto. Erano i suoi soli amici, con i quali trascorreva momenti favolosi.
Un orribile giorno di tre anni fa, Sofonisba, posando la mano ormai rugosa sulla maniglia della libreria, si bloccò raggelata. Un cartello scritto a mano diceva:
“Svuotiamo tutto. Libri a metà prezzo”.
Varcò la soglia con un terribile senso di oppressione sul petto, un malessere che non aveva mai provato.
«Dobbiamo chiudere» le spiegò l’anziana libraia con un sospiro, «troppe spese e pochi clienti» poi tornò alla cassa, dove una ragazza aveva appena posato una discreta pila di libri.
«Ci mancherà moltissimo, signora Emilia» le disse la giovane. «Come farò senza i suoi consigli?».
«E dove andrò adesso a comprare i libri?» chiese invece Sofonisba, che di consigli non aveva mai avuto bisogno.
La ragazza la guardò; aveva occhi verdi e capelli biondo rossicci, lunghi fin quasi alla vita; la sua pelle era bianca come lo era stata quella di Sofonisba, prima che il tempo la facesse virare al grigio spento.
«C’è una bella libreria in Piazza Milano. È di un mio giovane collega, ma lei, signora, si troverà benissimo: è stipata di volumi fin quasi al soffitto» spiegò Emilia, ma Sofonisba la guardò orripilata: piazza Milano era a più di un’ora di cammino e lei non si sarebbe mai avventurata così lontano da casa e dal suo ufficio.
Probabilmente lo disse a voce alta, perché la ragazza dai capelli fulvi esclamò:
«Possiamo andarci insieme in metropolitana. A s-proposito, io mi chiamo Melinda» e le porse la mano.

Fu una strana avventura, per l’anziana donna, scendere le scale mobili, passare oltre i cancelli automatici e salire su quel treno che sfrecciava senza nessuno alla guida. E più ancora fu straordinario il fatto che, durante il tragitto, cominciasse ad ascoltare la ragazza, con interesse che andava via via crescendo, man mano che scopriva l’amore condiviso per i libri.

Adesso Sofonisba è in pensione già da qualche anno; durante il giorno aiuta Melinda con i due bimbi e le faccende di casa, mentre la ragazza è al lavoro. Ma alla sera, proprio all’ora in cui usciva dall’ufficio, si siede in poltrona e, finalmente, legge, stanca ma estremamente felice. 

venerdì 11 dicembre 2015

Il Signor Autunno

Che razza di stagione è? Il calendario dice che siamo in autunno e io, ovviamente, gli do ragione. Però, se guardo dalla finestra il sole splendente, il cielo azzurro e le rarissime nuvole bianche, stento a crederci.
Quando ci siamo trasferiti qui in montagna, i commenti sono stati molteplici: entusiasmo, perplessità, dubbi sulla nostra salute mentale e sana invidia. Su una cosa tutti erano e sono concordi: il clima. Freddo, neve, gelo sono le parole che più spesso sentivamo, non so se come avvertimento o semplice constatazione. Strade impraticabili, spazzaneve allertati fin da settembre, riserve di legna da ardere e viveri.
Mio figlio, con un sorriso soddisfatto, preparava sci e pelli ad ottobre, monitorando ogni lingua di neve negli anfratti sulle cime. Scarponi, calzettoni nell’armadio e pantaloncini addosso, pronti ad essere sostituiti da calzoni in Gore-Tex.
Io, più bradiposa (o bradipica?), preparavo i piumoni e i plaid e riempivo la dispensa di tisane alla cannella e liquori alle erbe.
Adesso devo ammettere che un po’ di freddo è arrivato, che abbiamo avuto anche un po’ di neve, così, come contentino. Però…
Per fortuna c’è il Signor Autunno, ovvero il nostro carissimo vicino di casa. Con lentezza prepara tutto l’occorrente per la brutta stagione, forte dei suoi molti anni trascorsi qui. Non c’è fretta, dice, il freddo arriverà, eccome. Non come una volta (ve lo dicevo che il clima è impazzito, no?), ma ancora da tenere sotto controllo.
E se le foglie faticano a staccarsi, le aiuta lui, con una lunga canna, per alleggerire i rami.
Non si sa mai: una nevicata può arrivare da un momento all’altro. 

Solitudine

Il Natale è la festa dell’amicizia, della famiglia, della casa. Si addobbano le finestre, i balconi, in modo che anche soltanto chi passa senta il desiderio di fermarsi, di gustare il piacere di quella casa accogliente. Si bussa a porte con ghirlande verdi e dorate, si entra in salotti dove l’albero si accende e spegne ad intermittenza e il presepe ha spodestato soprammobili e portafoto.
Man mano che i giorni passano, lungo le strade le luci aumentano, con giochi ed effetti che (finalmente) pare abbiano spodestato i Babbi Natale appesi alle ringhiere. Quel che si vuole dire, con questi messaggi in codice, è che vogliamo festeggiare, vogliamo sentirci bene, in compagnia.
Per questo a Natale la solitudine si fa sentire in modo feroce; il dolore, la perdita si accaniscono con maggiore crudeltà e spietatezza, proprio per il contrasto indelicato di questa sfrontata allegria diffusa. Il tempo per assimilare, per sedare il dolore non c’è. La festa si avvicina e sembra inconcepibile anche solo il ricordo della gioia.
Che fare? Non lo so, come temo non lo sappia nessuno. Penso che ci sia soltanto la possibilità di condividere: portando il peso in tanti forse si alleggerirà il fardello. Cercando di trasmettere vicinanza, si proverà a contagiare con la serenità, seppure ancora lontana, seppure ancora da conquistare.

mercoledì 9 dicembre 2015

Una cosa impossibile

Il clima è impazzito, lo sappiamo tutti. Ma dire “il clima” è soltanto un sollevamento di responsabilità: siamo noi ad essere diventati matti. Consumiamo, bruciamo, gettiamo via, compriamo in continuazione e, come in una dimostrazione per assurdo, ci sentiamo sempre meno felici.
C’è una soluzione? Voglio credere di sì, ma lo dobbiamo credere tutti. Facile? Non direi proprio. Eppure dobbiamo provarci e io, nella mia ingenuità, che all’avvicinarsi del Natale aumenta esponenzialmente, mi illudo che sia davvero una meta raggiungibile.
La parola d’ordine dovrebbe essere lentezza. Facciamo finta che io, per ventiquattr’ore, abbia i superpoteri di Mork, quello di Mork e Mindy (il mai abbastanza lodato Robin Williams ai suoi esordi) e faccia in modo che voi, che state leggendo, all’improvviso, sentiate il bisogno di rallentare.
Niente zapping in tv, ma un canale solo per tutta la sera o, meglio ancora, un bel libro, una chiacchierata lavorando a maglia, una tisana sotto le coperte ascoltando musica. Il mattino dopo niente corse contro il traffico, ma una sana pedalata o il treno, su cui su può anche continuare la lettura del libro della sera prima. Alla fine del lavoro, dove rallentare non dipende soltanto da noi, purtroppo (ma su questo possiamo lavorare tutti insieme), una bella camminata fino alla palestra, dove arriveremo con il riscaldamento già fatto. E così via, fino alla sera stessa.
Impossibile, lo so. Ma se non proviamo ad allenarci a pensare a cose impossibili, non riusciremo mai a realizzarle. Del resto, come dice la Regina in Alice attraverso lo specchio:
«Quando ero giovane, mi esercitavo sempre mezz'ora al giorno. A volte riuscivo a credere anche a sei cose impossibili prima di colazione».
E se non ci alleniamo nemmeno a Natale, quando potremmo farlo? 

Prove tecniche di vacanza

Nonostante io lavori senza orari, e dunque senza vere e proprie vacanze, ogni volta che i ragazzi sono a casa da scuola partecipo con molto entusiasmo al clima di festa e relax che creano. Non che questo significhi riposo o tranquillità. Chiunque abbia figli adolescenti sa che le serate ad ascoltare programmi di musica alla radio e le domeniche dedicate alla lettura integrale di un libro sono praticamente impossibili. Una esce, l’altro arriva con gli amici, tutti affamati come lupi. Tra un film e una birra ecco in agguato le tre verifiche che li aspetteranno nei tre giorni di scuola post-vacanza.
Eppure in questi casi io mi sento benissimo. Mi chiedevo il perché di questa anomalia, io che temo il ticchettare dell’orologio quasi come Capitan Uncino, io che riesco a respirare un po’ soltanto quando ho cancellato almeno quattro o cinque righe di impegni sull’agenda. Perché questo andirivieni da stazione, questo caos da campeggio estivo mi piacciono? Semplice: perché sono gioiosi.
In tutto il marasma delle mini-vacanze io riesco a sentire il clima festaiolo, la risata esplosiva, lo spasso latente. Anche tra in libri di scuola e gli scarponi lo slalom è piacevole, senza pretese.
Il risultato non conta, l’obiettivo non deve essere raggiunto semplicemente perché non c’è. Così mi lascio portare da questa corrente strampalata e qua e là infilo, nei piatti che porto in tavola, nel fuoco del caminetto, nelle coperte sul divano, un sospetto di Natale: ospitalità, allegria e compagnia reciproca.

martedì 8 dicembre 2015

La casa della nonna

 Amanda ricevette la lettera in una fredda giornata di dicembre. Se lo sentiva già da qualche tempo, come un callo dolorante che preannuncia la pioggia. Decise di non aprirla immediatamente, ma di lasciarla sul ripiano, vicino al lavandino, in attesa che il caffè venisse su nella moka.
Ormai aveva compiuto settant’anni da più di una settimana e ancora non aveva festeggiato. Non lo avrebbe fatto, naturalmente, come ogni anno da quando suo marito se n’era andato di casa.
Erano stati belli i primi anni insieme: lui, con il suo studio di architettura, il grande appartamento al settimo piano, con terrazzo e mansarda, gli amici eleganti e le cene prestigiose. Per i loro compleanni, che cadevano a distanza di quasi sei mesi l’uno dall’altro, andavano in ristoranti sempre diversi, come se fosse sempre la prima volta.
La sera lui le raccontava la sua giornata di lavoro e a lei piaceva ascoltare i racconti degli strampalati e danarosi clienti, con le loro richieste assurde. Lui parlava molto, durante le loro intime cene in casa, e ascoltava anche le storielle buffe o irritanti della classe di lei; le sfuriate della bidella, le colleghe sempre in tiro, i bambini svogliati o meravigliosi. Almeno finché aveva cominciato a fermarsi in ufficio sempre più spesso.
Amanda lo aspettava sempre alzata, leggendo un romanzo o guardando un film. Al suo arrivo gli sorrideva, si alzava dal divano e gli andava incontro. Fino alla sera in cui non tornò. Semplicemente la chiamò per dirle che sarebbe restato fuori per la notte.
Amanda chiuse il libro, si lavò i denti, si mise il pigiama e cominciò a piangere sommessamente. Fu la prima e unica volta.
La sera successiva cenarono nella loro cucina spaziosa, sorridendosi e parlando del più e del meno, ma ben sapendo entrambi che non era una cena come le altre.
Un mese dopo lui fece le valigie e se ne andò.
Amanda continuò ad andare a scuola ogni giorno, ad incontrare per altri sei anni bambini che crescevano e se ne andavano. Fino al momento tanto desiderato della pensione.
Non le erano piaciute le riforme dei ministri dell’Istruzione; non era riuscita a cambiare il suo modo di vedere gli alunni: individui con doti, potenzialità, caratteri diversi. I piani formativi, i programmi sempre più assurdi trasformavano i bambini in soldatini, tutti uguali, tutti da inquadrare in ambiti, valutazioni, giudizi.
Fu felice di abbandonare la nave che affondava sotto i colpi delle riforme, e cominciò a dedicarsi ai suoi libri, al cinema e ai corsi di italiano per stranieri. Era felice.
Quel giorno di dicembre, dopo aver sorseggiato il caffè, aprì la lettera e vide, come ben sapeva, che gli avvocati del suo ex-marito le stavano chiedendo (gentilmente, non c’è che dire) di lasciare il grande appartamento con mansarda e terrazzo entro la fine dell’inverno.
Amanda sciacquò la tazzina e prese dallo scaffale a fianco del frigorifero un volume di ricette. Nella prima pagina un foglietto ingiallito riportava con una grafia elegante la Torta di mele di nonna Camilla. Gliela aveva scritta proprio lei, la sua cara nonnina, il giorno di Natale di sessant’anni prima.
«Tutte le volte che verrai a trovarmi» le aveva detto, «ti farò la torta. Ma un giorno non ci sarò più e dovrai farla tu per i tuoi nipoti».
Nipoti non ce n’erano stati, e neanche figli, ma Amanda aveva imparato a fare la torta che mangiava così volentieri su, nella borgata fredda e profumata della nonna Camilla.
Posò il gran libro di ricette nel borsone accanto alla valigia; poi si mise il cappotto e uscì di casa, tirandosi dietro la porta. Caricò tutto sulla piccola Panda e partì.

La casa della nonna la stava aspettando.

lunedì 7 dicembre 2015

Accostamenti

Continuando con il gioco degli accostamenti, mi sono chiesta, invece a cosa si potrebbe affiancare la parola “Avvento”. È una di quelle parole evocative, che non è facile sentire per caso, magari in una conversazione rubata sul treno o al bar. È difficile immaginare qualcuno che, parlando al cellulare, infili una frase come “ma sai che è già iniziato l’Avvento?” oppure “se venite a cena sabato vi preparo la torta dell’Avvento”.
Natale è un termine più sfruttato, anche da chi del Natale in sé se ne frega altamente. “Ci vediamo alla cena di Natale?” dicono. Perché gli accostamenti di parole fanno la differenza: pranzo di Natale, regali di Natale, auguri, festa, vacanze, pacchi, carta, decorazioni, vetrine… Invece con Avvento si possono usare al massimo due parole: “periodo” e “giorni”, oltre, naturalmente, a “calendario”.
Eppure in  questi giorni ho notato che l’idea del Calendario del’Avvento è ancora molto attuale, forse più attuale che mai. Perché?
Ho deciso che la risposta è una certa voglia di riflessione; il desiderio di fermarsi, di guardarsi intorno con una nuova curiosità. Forse mi sbaglio, ma intanto mi illudo che sia davvero così. Forse, per una volta, i fattacci che continuano ad ispessire i quotidiani, che tolgono la serenità a chi viaggia in aereo nelle grandi capitali o l’obiettività a chi li commenta con gli amici, inducono la gente ad un approfondimento.
Non so quali siano le conclusioni di questi ragionamenti, ma in ogni caso saranno un buon punto di partenza: riflettere non può che portare a risultati positivi. Gli scrittori ci stanno aiutando, con i loro Calendari dell’Avvento, con le loro riflessioni, magari non del tutto corrette, ma comunque ottimi spunti per approfondimenti, analisi, confronti.
Approfittiamone. 

sabato 5 dicembre 2015

Sogno di una notte di fine autunno

Sono quasi le 21, devo uscire con la macchina e scendere verso la città. La strada di casa nostra è buia, in mezzo ai boschi, che adesso sono grigi, senza più foglie. La striscia dell’asfalto è stretta e sinuosa; serpeggia tra avvallamenti e coste, in una danza continua che non permette accelerazioni. Svolto a sinistra, oltre una piccola sporgenza e vedo delle ombre muoversi. L’istinto mi fa fermare la macchina. Sono ombre opache, ma qualcosa, nel loro movimento mi affascina. Accendo gli abbaglianti e due di loro si staccano, si voltano flessuose e, come al rallentatore, saltano via, verso il bosco a monte. Non credo ai miei occhi, tuttavia la terza ombra, ancora ferma, si volta verso di me, punta uno sguardo sicuro eppure dolce. Le sue corna ramificate non possono che confermare la mia speranza: sono tre cervi, maestosi, aggraziati nella loro forza. Magnifici.
Anche il terzo salta verso il bosco e io mi trovo sola. Riparto con un lieve dispiacere; nella mia incoscienza vorrei seguirli. Impossibile, ormai saranno già lontani, o forse si sono fermati appena più sopra, fuori dalla mia vista.
La sera è lunga, gli impegni mi tengono lontana dal letto caldo fin dopo mezzanotte, ma poi, finalmente, torno a casa e crollo in un sonno profondo. Il mattino è già luminoso quando mi sveglio. Mi volto dall’altra parte, pensando con gioia che è festa e, nel dormiveglia, mi ritrovo a pensare ancora agli splendidi animali. Solo che questa volta io sono con loro, accarezzo il collo del più alto che dimostra di conoscermi; inchina il capo coronato come soltanto un sovrano sa fare e mi fa salire sulla sua groppa.
Il bosco è sempre buio, ma i rami brillano di galaverna, scintillano nella luce delle stelle.

Mi sveglio con il sapore di una magia appena vissuta.


venerdì 4 dicembre 2015

Serenità transitiva

Mi è sempre piaciuto il gioco delle catene verbali. Un tipo dice una parola e il giocatore di fianco deve dirne un’altra che si colleghi alla prima tramite una qualunque associazione mentale. Può essere un anagramma, un sinonimo, un termine di significato opposto, un ricordo elaborato, un collegamento inconscio. Si può anche tentare di fare della facile psicologia ai propri amici, tramite queste connessioni logiche.
Ad esempio “lavoro” e “sonno”, oppure “amore” e “cognato”, o “festa” e “sbronza”, “panna montata” e “pelle”.
Ma restiamo in tema.
Se dico la parola “Natale”, cosa dite voi?
Penso che potrei raccogliere infiniti vocaboli: neve, freddo, parenti, messa, presepe, ansia, pranzo, regali, solitudine, lusso, amici, pastori, ipocrisia, stella, panettone, poveri…
A me è venuta in mente “frenesia”. So che è contraria allo spirito del Natale, che in tutti i canti e nelle poesiole dei bambini è pace, gioia, armonia. Ma io ogni anno arrivo al Natale stremata, con in mano l’orologio come un Bianconiglio stressato e un lunghissimo elenco di cose ancora da fare.
Quest’anno invece no, ho deciso che non mi capiterà. Preparerò tutti i regali entro il 22 dicembre, farò la spesa senza dimenticare nessun ingrediente per il pranzo o la cena del 26, avrò la casa ordinata e il bagno splendente, i piatti dello stesso numero dei commensali o persino di più, i bicchieri luccicanti e i tovaglioli candidi.
Forse. Ma più facilmente non sarà così, e allora quello che cercherò di fare sarà restare imperturbabile, di mantenere la calma, di non dare importanza a ciò che non ce l’ha.
Così ho deciso di cominciare ad allenarmi con alcune tecniche che ho creato io stessa:
1 - Ripetere almeno dieci volte al giorno l’esclamazione “Eh, pazienza…”, alzando le braccia e chiudendo gli occhi.
2- Leggere due (ma aumentare fino a quattro al giorno) post su facebook pieni di errori di ortografia, strafalcioni e commenti razzisti senza irritarsi e concludendo con l’esercizio 1.
3 – Verificare il totale delle tasse pagate durante l’anno e poi decidere, son un sorriso, di andare in pizzeria.
Nel corso del training i rischi sono: irritazione crescente, digrignare di denti e innalzamento del tono di voce. In tal caso dovrò sedermi in poltrona e osservare, per almeno cinque minuti, le nostre due cagnette che dormono.

Loro sì che non hanno il minimo dubbio: tutto va bene e continuerà ad andare bene. Le poltrone sono comode, il fuoco scoppietta, le ciotole si riempiono magicamente di pappa al momento giusto e, nei giorni di festa, sul divano cresce una strana protuberanza dai colori scozzesi che prende le forme ergonomiche necessarie. 
Con l'avvicinarsi delle feste i cinque minuti diventeranno due ore.  


giovedì 3 dicembre 2015

Fantasticherie natalizie

Ho appena finito di scrivere il post del 2 dicembre, secondo giorno d’Avvento, quando mi trovo a leggere un articolo di Federico Rampini del 29 agosto. È un po’ datato, lo so, ma è frutto della casualità con cui compaiono i giornali nel nostro bagno, luogo prediletto per la lettura. L’articolo parla degli sfibranti impegni a cui sono sottoposti i giovani dai quattordici anni in su, per accumulare punteggio e raggiungere così le università più prestigiose degli Stati Uniti, ragazzi di tutto il mondo, che aspirano ad un titolo di studio universalmente considerato il migliore. Per arricchire il proprio curriculum, questi giovani sacrificano le vacanze e partecipano a stage di ogni genere.
Concordo con Rampini nel dire che questa competizione mi sembra poco sana e, devo confessarlo, ero tentata di non finire l’articolo. Poi, però, l’occhio mi è caduto su queste parole: “esperienza concreta di situazioni di povertà e disagio”. I ragazzi, per accumulare punti, ovvero per un motivo prettamente egoistico, sono invitati a fare volontariato in zone disagiate, a rendersi utili, innanzitutto, ma ancor più a rendersi conto. Per un breve periodo devono osservare un mondo che non conoscono, se non per averne sentito parlare; devono osservarlo dall’interno, vivendo a strettissimo contatto con le persone che hanno bisogno del loro aiuto.
Devono indossare i panni degli altri.
E così la mia sensazione di fastidio è svanita e ho pensato che forse (è soltanto un forse, ma è già qualcosa) stimolando la competizione si fanno uscire i ragazzi benestanti dal loro guscio di comodità, perché possano aprire gli occhi su un mondo che soffre.
Così, in una delle mie fantasticherie natalizie, mi sono immaginata un Italia in cui, per avere detrazioni fiscali, agevolazioni da assicurazioni o banche, gli adulti siano invitati a prestare servizio gratuito nei centri accoglienza, nelle mense dei poveri, nelle corsie degli ospedali, nelle classi dei disabili.
So che è soltanto un sogno, ma sarebbe davvero uno spiraglio di felicità collettiva.


mercoledì 2 dicembre 2015

I panni degli altri

Tutti noi in questo periodo ci chiediamo quale odio possa essere così forte da spingere a perdere la propria vita pur di uccidere altre persone, sconosciute, inermi.
Nessun credo politico, nessuna corrente filosofica aveva mai osato spingersi così avanti. Quindi la domanda, che in un modo o nell’altro, ci si deve porre è: quali sono le motivazioni che possono portare a tanto?
Povertà, ignoranza, il sentirsi diversi, giudicati a priori sono sentimenti negativi che conducono facilmente alla fragilità, alla possibilità di essere imboniti da chi sfrutta queste debolezze a proprio vantaggio (vantaggio economico, non dimentichiamolo mai).
Ma non è questo che voglio fare adesso, non voglio tentare un esame, terribilmente complesso e temo fuori dalla mia portata; quello che voglio qui sottolineare è che la condanna fine a se stessa, il giudizio univoco che non ammette repliche non porterà ad alcuna soluzione.
Certamente sono assassini, senza dubbio, ma anche un assassino ha sempre una motivazione, fosse anche la follia. Questa motivazione va cercata, indagata, e con tutte le nostre forze combattuta, in quella che è l’unica possibile guerra, quella contro l’infelicità.

Sono stata educata nei valori della fede cristiana, con molte contaminazioni, talvolta piuttosto creative. Non ero ancora nata ai tempi in cui il Concilio Vaticano II portava una ventata di freschezza nei riti e nei dogmi cattolici, ma i miei genitori ne parlavano spesso e, seppur con le dovute confusioni di una mente infantile, ho cominciato ad intuire la portata di un simile cambiamento.
La mia famiglia, tradizionalista come tutte le famiglie borghesi dell’epoca, mi ha insegnato un concetto che mi ha aiutato immensamente allora e continua a farlo: l’apertura mentale.
Non è tolleranza (che parola infida e subdola: finge bontà ma contiene superbia, la convinzione di essere migliori), non è superficialità, che mette tutto sullo stesso piano; è la possibilità di cambiare idea, di ascoltare un parere contrario, di ammettere di aver sbagliato. Una delle più interessanti “lezioni” di catechismo familiare fu Mistero buffo di Dario Fo, e il suo ritratto spietato e ridicolo della chiesa di BonifacioVIII.
Erano gli anni in cui si era rossi o democristiani, fascisti o socialisti, e noi leggevamo Guareschi e capivamo che lo spartiacque è fasullo, che le classificazioni servono soltanto a chi vuole strumentalizzarle a proprio vantaggio. Peppone è ignorante e bolscevico, ma buono e generoso, Don Camillo si infuria e mena le mani, ma corre ad aiutare chi ha bisogno; buoni e cattivi sono soltanto etichette.
Così la regola era ed è “non giudicare prima di aver sentito tutte le campane”.
Non che mi sia facile riuscirci, sia ben chiaro, la voglia di esprimere giudizi è forte, il desiderio di sputare sentenze, regalare perle di saggezza è un istinto talvolta ribelle.
La sensazione di avere Ragione, quella assoluta, con la R maiuscola, è sempre in agguato e occorre una grande capacità per resistervi. Ma l’importante è rendersi conto, magari non subito (siamo umani, no?), magari dopo qualche bella discussione improduttiva, dai toni sempre più alti, di aver sbagliato.
Nessuno possiede la Verità, ma soltanto una misera, parziale opinione. Per questo credo che, se c’è una soluzione, può trovarsi soltanto nel provare a mettersi nei panni degli altri. 

martedì 1 dicembre 2015

Ha senso un calendario dell'Avvento?

Oggi è il primo di dicembre, il primo giorno del calendario dell’Avvento. Quando ero piccola non esistevano quei bellissimi quadri a cassettini, da aprire giorno dopo giorno fino al 24 dicembre, scoprendo cioccolatini, caramelle, giargiattole o figurine. Li ho scoperti con i miei figli, giocando con le loro facciotte sorprese al mattino, e con un conto alla rovescia pieno di attese.
Adesso i nostri figli sono grandi, ma io ho deciso di scrivere questo calendario dell’Avvento per me stessa e per tutti coloro che sentono, come me, il desiderio di scoprire qualcosa di nuovo ogni giorno.
Non è una novità, sono anni che importuno i miei amici mandando loro una mail al giorno dal 1° al 24 dicembre, raccontando qualcosa, inviando scene di film, poesie, brani di canzoni o fotografie. Perché lo faccio? Ha senso in un periodo così complesso come questo che stiamo vivendo?
Da un lato il Politically correct ci obbliga a dire sempre bene di tutti, anche di coloro che non stimiamo; ci obbliga ad addolcire le parole per non sembrare arroganti. D’altro canto le dispute politiche e televisive ci hanno assuefatto ad una violenza verbale e sonora utile soltanto per far risaltare la voce più forte e stridula, non le idee migliori.
Allora ho deciso: la risposta è sì, ha senso scrivere un calendario dell’Avvento, soprattutto in un periodo come questo, in cui il confronto è inevitabile e auspicabile.
Mettere on-line i miei brevi scritti in ogni giorno di dicembre, non significa mostrare di appartenere ad una fazione, ad una corrente, ad un gruppo politico. Significa, per me, cercare di trasmettere sensazioni, emozioni, di chiedervi uno spunto per riflettere.
Sono certa che insieme riusciremo a darci serenità. 


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