Ho
appena finito di scrivere il post del 2 dicembre, secondo giorno d’Avvento,
quando mi trovo a leggere un articolo di Federico Rampini del 29 agosto. È un
po’ datato, lo so, ma è frutto della casualità con cui compaiono i giornali nel
nostro bagno, luogo prediletto per la lettura. L’articolo parla degli sfibranti
impegni a cui sono sottoposti i giovani dai quattordici anni in su, per accumulare
punteggio e raggiungere così le università più prestigiose degli Stati Uniti,
ragazzi di tutto il mondo, che aspirano ad un titolo di studio universalmente
considerato il migliore. Per arricchire il proprio curriculum, questi giovani
sacrificano le vacanze e partecipano a stage di ogni genere.
Concordo
con Rampini nel dire che questa competizione mi sembra poco sana e, devo
confessarlo, ero tentata di non finire l’articolo. Poi, però, l’occhio mi è
caduto su queste parole: “esperienza concreta di situazioni di povertà e
disagio”. I ragazzi, per accumulare punti, ovvero per un motivo prettamente
egoistico, sono invitati a fare volontariato in zone disagiate, a rendersi
utili, innanzitutto, ma ancor più a rendersi conto. Per un breve periodo devono
osservare un mondo che non conoscono, se non per averne sentito parlare; devono
osservarlo dall’interno, vivendo a strettissimo contatto con le persone che hanno
bisogno del loro aiuto.
Devono
indossare i panni degli altri.
E
così la mia sensazione di fastidio è svanita e ho pensato che forse (è soltanto
un forse, ma è già qualcosa) stimolando la competizione si fanno uscire i
ragazzi benestanti dal loro guscio di comodità, perché possano aprire gli occhi
su un mondo che soffre.
Così,
in una delle mie fantasticherie natalizie, mi sono immaginata un Italia in cui,
per avere detrazioni fiscali, agevolazioni da assicurazioni o banche, gli
adulti siano invitati a prestare servizio gratuito nei centri accoglienza,
nelle mense dei poveri, nelle corsie degli ospedali, nelle classi dei disabili.
So
che è soltanto un sogno, ma sarebbe davvero uno spiraglio di felicità
collettiva.
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