mercoledì 25 febbraio 2015

Suzanne Collins, Hunger games. Il canto della rivolta, Mondadori

Mi sono chiesta in più di una occasione se fosse o meno il caso di recensire un best seller come Hunger games; il successo planetario della trilogia non rendeva necessarie altre parole, soprattutto le mie. Per questo motivo non ho scritto nulla né sul primo romanzo, né sulla Ragazza di fuoco, il secondo volume della serie, pur avendoli letti con grande soddisfazione.
Ora, al termine della lettura del Canto della rivolta, sono giunta alla conclusione che, se la mia recensione riuscirà a convincere anche solo un lettore in più, allora va fatta.
Katniss Everdeen, la protagonista del romanzo, vive in un mondo devastato dalle guerre, che hanno portato al potere un unico Distretto, che governa sugli altri con due mezzi niente affatto originali: la fame e il terrore. Gli altri dodici Distretti sono soggiogati dal primo, che sfrutta i loro abitanti e li tiene in schiavitù con soldati denominati non senza ironia Pacificatori. La capitale, Capitol City, è invece assurdamente ricca e gli abitanti sperperano il troppo denaro in cure maniacali dell’apparenza estetica, così sfrontata da rasentare il grottesco e in banchetti all’insegna dello spreco.
Nei primi due volumi della trilogia, Katniss doveva combattere negli Hunger games, giochi ispirati ai combattimenti tra gladiatori nei circhi romani, organizzati per ridurre il popolo alla innocuità. Le regole sono semplici e agghiaccianti: due ragazzi tra i dodici e i diciotto anni vengono estratti a sorte in ogni distretto, gettati in un’arena estremamente tecnologica e obbligati a combattere a morte, fino alla sopravvivenza di uno solo di loro, il vincitore. I giochi degli affamati (hunger, appunto) servono a dissuadere chiunque abbia anche solo la tentazione di alzare la testa; ma, se questo non  fosse sufficiente, c’è sempre l’esempio del tredicesimo distretto, che aveva tentato di ribellarsi, a cui è toccato il destino della distruzione totale.
Già nel primo episodio la ragazza dà segni di ribellione, obbligando il presidente Snow, dittatore crudele ed astutissimo, a tenerla sotto stretto controllo. Ma è nel secondo volume che Katniss mostra i veri segni di quella che potrebbe essere una catastrofe per la dittatura, incrinando le sicurezze di una classe agiatissima e sfruttatrice, fatta di pochi diabolici strateghi e di una moltitudine di frivoli modaioli.  
Così nel Canto della rivolta la coraggiosa e scorbutica guerriera dovrà affrontare il vero nemico. Devastata dalle orribili esperienze passate, che le provocano continui incubi, Katniss impersona a fatica il ruolo di guida come Ghiandaia Imitatrice (un uccellino il cui canto è divenuto simbolo dei ribelli), ma anche quello di “ragazza immagine”, gettata davanti alle telecamere per propaganda politica.
Il suo mondo è distrutto e il suo desiderio di vendetta sembra pilotato, da chi la vuole portare in trionfo come dai suoi avversari, che sembrano conoscere ogni sua mossa. Peeta, il compagno di lotta, è nelle mani dei nemici, che potrebbero usarlo per ricattarla o distruggerla, Gale, il suo più caro amico, cerca di capire cosa provi veramente, di penetrarne la scorza e aiutarla a ritrovare la serenità.
Ma la guerra è iniziata e non c’è più tempo per i problemi di cuore. I ribelli combattono contro un esercito potentissimo, comandato da un presidente subdolo e disposto a tutto. Katniss viene più volte ferita gravemente, ma nei suoi lunghi percorsi verso la guarigione scopriamo, grazie alle riflessioni che la protagonista compie in prima persona, tutti i suoi dubbi.
La morte di tante persone è un prezzo adeguato per la libertà? È giusto proteggere chi si ama più di tante altre persone? E la domanda che dalla Fattoria degli animali di George Orwell in poi percorre gli ambienti della politica: quando si è in cima alla scala del potere, è ancora così semplice capire cosa è bene e cosa è male?

Suzanne Collins rende un tema attuale e estremamente profondo un piacere per i lettori, contagiando tanti giovani e portandoli, per mezzo della fantascienza e della fantapolitica, alla riflessione.
La Ghiandaia Imitatrice non è più un semplice personaggio, è un emblema, un esempio da imitare. Ne sono la prova concreta i ragazzi tailandesi, che hanno assunto il saluto a tre dita di Katniss e di ribelli come gesto di riconoscimento e protesta.
"Stiamo monitorando coloro che utilizzano questo saluto ma al momento ancora non è stato bandito" ha detto il portavoce della giunta militare Winthai Suvaree alla Reuters "in caso però di raggruppamento di cinque persone o più potremo compiere degli arresti".
E' successo in Thailandia. A finire in manette, cinque studenti, fermati dalla polizia per una contestazione ispirata proprio ai film con protagonista Jennifer Lawrence, messa in atto durante un discorso del primo ministro Prayuth Chan-Ocha, che guida la giunta militare dopo il golpe dello scorso maggio. I giovani sono riusciti a radunarsi sotto il palco dove parlava Prayuth, esibendo il saluto a tre dita che nel film simboleggia - appunto - la resistenza alla dittatura.
Il fatto che i molti personaggi che affiancano la nostra protagonista abitino un mondo fantascientifico non rende tutto questo meno vivificante: la speranza che i giovani sappiano reagire e manifestare il loro dissenso è finalmente una speranza per tutti.
E forse anche nella nostra indifferente Italia i giovani cominceranno ad alzare le braccia in una selva di mani con tre dita bene in vista.




lunedì 16 febbraio 2015

Elisa Bevilacqua, Praticamente mezzo paese, Il Graffio

Buonaria è una ridente cittadina dalla collocazione geografica non precisata, situata in fondo ad una valle e per questo di “mezza montagna”, definizione che sottintende già un bel po’ di contraddizioni.
C’è l’atmosfera ruspante di paese, in cui tutti conoscono tutti, ma ci sono anche gli intrighi politici, le alleanze, i colpi bassi che si leggono sui quotidiani nazionali: Buonaria non ha niente da invidiare alla politica italiana. Qui, però, invece dei telefoni controllati, ci sono i pettegolezzi, come in ogni paese che si rispetti, che si diffondono a gran velocità, grazie anche al numero incredibile di bar, ognuno adatto ad un particolare tipo di avventore.
Ci sono i bar chic, con il bicchierino di acqua frizzante accanto alla tazzina dell’espresso e i camerieri in divisa, e quelli da “un bicchiere di rosso” non meglio identificato, servito da una prosperosa barista, magari un po’ datata.
Insomma, un paesone che gioca a fare la città.
Ultimamente l’atmosfera si è fatta molto più calda: le elezioni per il sindaco del paese, anzi, scusate, della città, sono alle porte e la tensione cresce giorno dopo giorno. Il vicesindaco uscente ha deciso di candidarsi a primo cittadino, non fosse altro per poter rivelare dei retroscena che potrebbero definitivamente destabilizzare la giunta uscente.
Tra i candidati si ingaggiano battaglie a suon di comizi anti-corruzione, associazioni pro-turismo locale, interviste e apparizioni continue. Il gioco si fa duro, sleale e i combattimenti sono all’ultimo sangue.
E non sembra un semplice modo di dire, dato che un morto alla fine c’è scappato: proprio il vicesindaco uscente, Filippo Cordero Gallo, che si porta così i suoi segreti nella tomba.
Non era un personaggio comodo, pur essendo simpatico; o forse era troppo simpatico, specialmente alle donne, le quali si accaparravano la sua attenzione senza troppe difficoltà, avvalendogli così la fama di donnaiolo.
Eppure la sua situazione familiare era stabile, sebbene non idilliaca agli occhi dei perbenisti. Viveva felicemente con i suoi due figli e con una donna straniera molto giovane che, almeno così si dice, aveva salvato dal marciapiede.
E allora perché è sdraiato in terra, cadavere, con il suo vestito elegante e il profumo intenso che tutti riconoscevano?
Il Capitano Coralli se lo ritrova davanti di mattino presto, dopo essere stato scaraventato giù dal letto nel suo giorno libero dal suo vice. Ancor prima di prendersi un caffè, Coralli capisce di essersi infilato, non certo volontariamente, in un bel ginepraio. Dovrà affrontare ore ed ore di interrogatori, nonché una visita in ognuno dei moltissimi bar dove il Cordero Gallo è stato prima di morire: quindici. Per fortuna tutto questo gli darà occasione di incontrare spesso la bella giornalista Antonella Giovannini e magari di farsi dare qualche notizia preziosa, senza farsi scappare niente, beninteso.

domenica 8 febbraio 2015

Nick Hornby, Funny girl, Guanda

Siamo nei favolosi anni Sessanta e l’Inghilterra sta per vivere la rivoluzione culturale più calda e ottimista del secolo. La gente si ripete che il mondo sta cambiando e, sebbene sia una delle fasi fatte più ritrite e prive di significato, è davvero così. I giovani annusano nell’aria qualcosa di diverso e osano pensare e progettare con un coraggio mai provato in precedenza.
Barbara è uno di questi giovani, curiosa di esplorare nuovi orizzonti fuori dal paese di Blackpool, fuori dal suo provincialismo e soprattutto lontano da suo padre, soffocante e tetro (“un ciccione di quarantasette anni, vecchio prima di averne diritto”), che però è tutta la sua famiglia, da quando la madre è scappata di casa.  
La grande aspirazione di Barbara è far ridere la gente: vuole diventare un’attrice comica come Lucille Ball. Per questo lascia la corona di Miss Blackpool alla seconda classificata e corre a Londra.
Mini-appartamento in subaffitto, posto da commessa nei grandi magazzini e provini a raffica sembrano la strada giusta per iniziare una carriera (a parte una deviazione verso una relazione con un ricco uomo sposato, morta prima ancora di nascere).
Poi capita uno di quegli eventi che possono far credere ai miracoli o alla semplice ironia della sorte: un provino di fronte agli stessi sceneggiatori, che cominciano ad intravvedere, sopra un seno prosperoso e sotto una soffice chioma bionda, un bel cervello da attrice.
È l’inizio della fortunata sitcom Barbara (e Jim), dove Barbara, che tutti credono si chiami Sophie, frizzante ragazzotta di provincia, cerca di portare avanti il matrimonio col banale e molto intellettuale Jim, ficcandosi in cento situazioni esilaranti.
Lungo i venticinque capitoli del romanzo, Nick Hornby ci fa incontrare attori colmi di sé, produttori e agenti alle prese con matrimoni complessi, giornaliste in carriera, femmes fatales, anziani nostalgici e incompresi, per creare una trama in cui personaggi reali e invenzioni di fantasia si uniscono senza attriti. Protagonisti di questa vicenda sono cinque personaggi che vivono gomito a gomito per tutta la durata del libro, creando una serie di scene che a loro volta sembrano episodi di una situation comedy.

In questi anni di scoramento e paura del domani, il grande romanziere ci ridona entusiasmo per le piccole vittorie, mostrandoci un mondo che non esiste più: quello della televisione di famiglia, in cui tutti si riunivano per vedere la stessa trasmissione e la vivevano come una seconda realtà. Un mondo dove già si affacciavano grandi domande sulla importanza della televisione come mezzo per diffondere la cultura, e se fosse possibile far coincidere cultura e intrattenimento, senza svilire il palinsesto dei programmi.
Con Funny girl Hornby affronta, con la consueta ironia e con apparente leggerezza, temi che meritano certamente una riflessione: l’audience come schiavitù per i produttori, la differenza tra cultura alta del romanzo sociale e la cultura bassa della commedia, e infine il tema fondamentale della rivoluzione sessuale.
Nel corso della lettura, tra dialoghi trascinanti e battute di sano umorismo, affiora la domanda: possibile che ancora nel 1966 fosse un reato l’omosessualità in Inghilterra? Possibile che un’attrice splendida e brava dovesse chiedersi se fosse giusto considerarsi “un premio da offrire malvolentieri”?
La risposta potrà causare soltanto una seconda domanda, ben più terribile: possibile che, almeno in Italia, dopo cinquant’anni siamo ancora fermi lì? 

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