sabato 29 dicembre 2012

Rosa Mogliasso, La felicità è un muscolo volontario, Salani


Torino, la fredda Torino è avvolta dal gelo dell’inverno; le ricche signore perennemente a dieta, tra un party per sole donne e una conversazione con il life-coach, si preparano ad un Natale brillante e alla moda.
Barbara Gillo no. Lei vuole lavorare, dimenticare il suo splendido Massimo Zuccalà, chiuso in un misterioso silenzio in quel di Palermo. Vuole buttarsi su scartoffie, interrogatori, indagini ed evitare commenti salaci del suo vice Peruzzi, sempre pronto a dispensare citazioni e consigli non richiesti.
La notizia che la signora Mappei è stata accoltellata brutalmente , nella sua casa con l’igloo firmato, e poi finita a martellate, non dovrebbe essere propriamente motivo di gioia. Eppure è ciò che ci vuole per strappare Barbara dalle sue tentazioni di fuga verso Palermo e per offrirle una valida scusa per evitare i mille impegni mondani in cui la vorrebbe coinvolgere la sorella Meri.
Inoltre la faccenda non è così semplice come potrebbe sembrare perché, nonostante la signora Mappei (donna Mappei, dopo aver perso il titolo di contessa, sposando il giardiniere di famiglia, con grande giubilo di D.H. Lawrence e simili narratori) fosse molto ricca, non c’è traccia di furto e nemmeno di scasso.  Le cellule grigie del commissario Gillo sono dunque ben occupate a districare una matassa il cui bandolo può trovarsi addirittura negli anni di piombo, in quella Torino arrabbiata e pericolosa nella quale Serena Mappei, figlia della vittima, conobbe la svolta della sua vita.
Narrativa a tutto tondo, che coinvolge dalla prima all’ultima riga, appassionando e divertendo.

 

domenica 16 dicembre 2012

Rosa Mogliasso alla Casa dei Libri


Alle 18 precise del 15 dicembre, Rosa Mogliasso fa il suo ingresso alla libreria La Casa dei Libri di Avigliana. Impermeabile nero, lunghi capelli ondulati, altezza decisamente notevole, il suo ingresso non può passare inosservato: tutte le teste si voltano verso di lei. Rosa sorride, stringe mani, si presenta a tutti con gentilezza e, con la consueta lentezza dei movimenti che fa di lei una signora, raggiunge la sedia preparata per la presentazione.
Gisella Viero, lettrice di grande abilità, sta per arrivare e Rosa comincia la sua presentazione: la voce è dolce, sonora, radiofonica, come l’ha definita la mia amica Chiara.
- In questo mio terzo romanzo ho voluto indagare sulla Torino degli anni di piombo, accostando alle vicende personali del commissario Barbara Gillo, e alla sua indagine per omicidio, fatti accaduti nel passato. Negli anni Settanta io ero una ragazzina – spiega la Mogliasso al pubblico attento, - ma ho fatto delle ricerche, interrogato persone e ho scoperto fatti agghiaccianti della vita di quei giorni, fatti che non si leggevano sui giornali perché coinvolgevano persone comuni e non uomini politici e grandi nomi del giornalismo. –
Una signora dal pubblico conferma: - Ero alla FIAT di Rivalta, giovane impiegata, e spesso mi sono trovata in mezzo a manifestazioni mio malgrado: per farci uscire dall’ufficio in fretta, ad esempio, lanciavano bulloni e cacciaviti contro le nostre finestre e spaccavano i vetri – attorno a lei si allarga un silenzio attonito. – Erano momenti bui, che adesso sono indescrivibili, incredibili. –
Gisella, per alleggerire il tono, legge un brano molto divertente del libro: la sua voce pacata è molto espressiva, le risate serpeggiano, trattenute, poi pian piano si fanno più forti, fino ad un vero scoppio di ilarità.
- Rispetto agli altri due romanzi (“L’assassino qualcosa lascia” e “L’amore si nutre d’amore”), questo indaga su un aspetto più serio della nostra storia; quindi ho voluto lasciare le parti più comiche ai capitoli più di contorno, meno direttamente rivolti alla trama. Mi piace descrivere un lato della Torino-bene, con le sue manie, le sue mode. –
La sorella di Barbara, ad esempio, che invita le amiche per la tombola di Natale e come primo premio mette in palio un vibratore; la vittima, riccona molto easy, che si fa dare del tu dai camerieri filippini; oppure il life-coach, splendido ragazzo pallido e nerovestito, ma, purtroppo per le protagoniste, assolutamente gay.
Anche questa volta Rosa Mogliasso azzecca i personaggi e trascina il lettore in un delitto complesso, i cui fili vengono tirati perfettamente.

  

sabato 8 dicembre 2012

Catherine Dunne, Quel che ora sappiamo, Guanda


La lettura dell’ultimo romanzo di Catherine Dunne non si affronta a cuor leggero. Da sempre impegnata nell’esaminare sentimenti profondi e complessi, l’autrice irlandese affronta in questa ultima opera il tema dilaniante del suicidio adolescenziale. Con una scrittura essenziale, tanto perfetta da venire dimenticata, esamina i meccanismi psicologici che portano una famiglia allargata a dover affrontare un lutto lacerante.
I genitori di Daniel, un meraviglioso ragazzo di quattordici anni e mezzo, sono in gita in barca a vela quando una sensazione, quasi una premonizione, li fa correre a casa.
Da quel momento il tempo pare sospeso e la narrazione passa di voce in voce, percorrendo le vite precedenti dei membri di quella famiglia, così normale nelle sue particolarità, fino a quel giorno funesto.
Grande protagonista di questa prima parte, filo conduttore di tutte le vicende, è Patrick, il padre di Daniel. Giovane marito infedele, cambia vita grazie all’aggressività della sua piccola primogenita, con cui resterà tuttavia in conflitto per molti anni. Rimasto vedovo, crolla nella totale apatia finché una donna di vent’anni più giovane lo riporta alla vita, e alle responsabilità che aveva dimenticato. La sua seconda vita scorre in parallelo a quella delle sua figlie: i nipoti crescono insieme al suo ultimogenito, Daniel, in una famiglia in cui le relazioni sono più un dovere che uno spontaneo piacere.
Ma ecco che la tragedia si consuma, la semplice routine, in cui la più piccola dissonanza sembrava una seccatura, viene squarciata e il vero dolore mostra la piccolezza dei rancori mai sopiti.
La seconda parte del romanzo affronta la lotta dei genitori devastati, il loro faticoso cammino fortificato dalla ricerca di una giustizia che non diventa mai vendetta. Qui la Dunne guida il lettore in un mondo di amicizia e solidarietà, tanto quanto, nelle pagine precedenti, lo aveva fatto soffrire con meschinità e cattiverie. Compaiono personaggi che sembrano marginali, ma che invece sono il fondamento per una nuova speranza.

Una lettura che affascina, colpisce e lascia un segno profondo.

 

giovedì 6 dicembre 2012

Daria Bignardi, L'acustica perfetta, Mondadori

Ci sono voluti sedici anni perché Sara riuscisse a trovare la voglia e l’opportunità di rincontrare Arno, sedici anni svaniti al primo sguardo, come se gli avesse detto addio appena il giorno prima. Lei lo aveva lasciato con un dolce bacio sopra ogni palpebra, in quella estate da adolescenti, col sole che sembra accendere la pelle dal desiderio; lo aveva lasciato dicendo: “Mi piacciono gli amori infelici”, poi era sparita.
Adesso, però, è di nuovo con lui, e questa volta la donna che ha desiderato per tanti anni, l’unica che poteva renderlo felice, entra definitivamente nella sua vita. Il matrimonio, i tre figli, il lavoro da violoncellista alla Scala: Arno ha tutto quello che desidera. Sara è una moglie premurosa, un’amante appassionata, una madre sempre presente, anche per gli amici dei figli, per i loro compagni di scuola.
Non che la vita con Sara sia tutta una dolcezza: ha il suo carattere misterioso, i suoi momenti di malumore; ma lui è un marito meraviglioso e la ama con tutto se stesso. Sì, ogni tanto si chiude, diventa ostile, ma qual è la coppia senza alti e bassi? E poi a lei piace scherzare anche in modo pesante, non sempre divertente.
Come in questi giorni, appena prima di Natale: cosa le sarà saltato in mente? Arno non può accettare che lei si allontani, e da chi, poi? Dal suo amore? Dai figli che adora?
Deve ricondurla a casa, riportarla alla sua vita, ai suoi figli, ma non sa da dove cominciare.
I genitori di Sara non le sono mai stati accanto, neppure nella sua adolescenza, non possono essere d’aiuto adesso. Eppure lui sente che qualcosa stride: i suoi stessi bizzarri genitori, il suo adorato amico Massimo sembrano reticenti, come se non volessero ammettere qualcosa.
Arno deve seguire le tracce lasciate per lui, anche involontariamente; deve trovare il coraggio di guardarsi indietro, di scoprire dentro di sé anche qualcosa che non vorrebbe vedere.

Daria Bignardi disegna una saga familiare al presente, seguendo una linea orizzontale che taglia il tempo;  ogni personaggio, ogni incontro è come una tappa, anche geografica. Milano, i paesi della Toscana, i paesaggi della Sardegna e dell’Isola di Amrum, nel Mare del Nord, sono un controcanto per gli stati d’animo che il protagonista affronta nel suo viaggio interiore verso la consapevolezza. Che talvolta è sinonimo di felicità.
 
Pubblicato sulla rivista "In...libreria", dicembre 2012, ediz. Susalibri

 

Claudio Rolando, Serge il sorcio, NEOS


Siamo a Parigi, la Parigi in fermento e piena di energia del 1957. La guerra è lontana ormai, ma altri sconvolgimenti stanno cambiando la storia: l’Algeria è in rivolta, e i francesi sono divisi su quanto dovrebbe fare la madre patria; la Francia sta siglando, con le altre nazioni europee, il patto per la creazione della CEE. Eppure tutto ciò scivola accanto a Leo Delfos, senza sfiorarlo. Lui, giovane cuoco già deluso dalla vita, si lascia trasportare dalla corrente, passando accanto ai grandi avvenimenti della storia senza lasciarsi coinvolgere: da quando sua moglie lo ha lasciato, sei mesi prima, sembra aver perso la voglia di vivere. Come un personaggio di Camus, esiste semplicemente, trascinando i suoi giorni tutti uguali, incapace di trovare un motivo per essere felice.
Finché una sera, lasciato lo squallido locale della banlieue dove ha finito il turno di lavoro, vede un topolino, un sorcio, zampettare sulla massicciata della fermata Porte Des Lilas del metrò. La sua apatia è scossa e la curiosità stuzzicata, soprattutto perché il piccolo animaletto sembra mosso da più di un semplice istinto: sembra che ogni suo movimento sia voluto, che tenti di comunicare con lui.
Leo, sera dopo sera, sente che la sua vita sta cambiando, che quel sorcio entrerà in qualche modo a farne parte. Decide di chiamarlo Serge e, per salvarlo dalla derattizzazione, lo porta a casa. Grazie a quel piccolo, incredibile  amico dal passato sconvolgente , ritrova il coraggio di vivere, di guardare di nuovo le donne, persino di cercare un altro locale più adatto alle sue capacità. Ma da quel momento la situazione sembra sfuggirgli di mano; il ritmo accelera e quello che all’inizio pareva un semplice gioco, si trasforma in un vero intrigo.
Ispirato ai grandi personaggi del noir francese, l’esordio narrativo di Claudio Rolando esce dai confini della Val Sangone e della divulgazione naturalistica, ed entra in un territorio affascinante: quello della vita parigina degli anni cinquanta, dei bistrot romantici, delle anonime eppure intime stazioni del metrò che popolano i mistery dei grandi autori.
Le straordinarie scoperte scientifiche dell’epoca suggeriscono all’autore un inverosimile esperimento di biologia in uno strano laboratorio. Gli ingredienti per una trama avvincente non mancano: donne affascinanti, uomini misteriosi, inseguimenti e quel pizzico di incredibile che può dare la visione di tutto ciò da parte di un minuscolo, simpaticissimo sorcio.
 
Pubblicato sulla rivista "In...libreria", dicembre 2012, ediz. Susalibri

venerdì 30 novembre 2012

Una ragazzata


Può capitare che una classe si affezioni ad un suo insegnante; può capitare che, al di là di quel che sembra un obbligo, i ragazzi stessi decidano di acquistare un regalo per quell’insegnante; può capitare che, senza conoscere i romanzi di Collodi, senza aver mai visto il meraviglioso professor Keating dell’ “Attimo fuggente”, quei compagni di classe sentano il piacere che un bel rapporto professore-allievo lascia nel tempo. Ed ecco allora il passa-parola, il piacevole tramare di un gruppo di amici che, durante gli intervalli, organizzano una piccola colletta; che durante i brevi pomeriggi corrono su facebook non per condividere post ridicoli o faccine sorridenti, ma per scambiare idee, per carpire i gusti di chi ha saputo catturare la stima e l’affetto di tutta la classe.
Capirete allora che l’attesa del giorno fatidico, il compleanno dell’insegnante, verrà vissuta con l’ansia e l’emozione di un momento importante, di un evento comune di cui si ricorderanno per gli anni a venire.
Ecco, è giunto. La classe, complice la professoressa dell’ora precedente, si nasconde sotto i banchi; l’insegnante entra nella classe deserta, legge la scritta sulla lavagna “Buon compleanno prof!”, ma non ha tempo di commuoversi perché i ragazzi saltano fuori dai loro nascondigli urlando.  Chiasso, confusione, ma, per una volta, non c’è voglia di note sul registro, non si pensa ad un rimprovero. Una torta troneggia sulla cattedra e il tanto cercato regalo sguscia dalle mani per essere finalmente rivelato.
Non basta ancora: l’insegnante sa di non essere un’esclusiva di quella classe e, insieme alla collega più affiatata, decide di coinvolgere i più piccoli tra i suoi allievi in quella festa estemporanea. Si avviano tutti insieme, alunni e professori, portando in parata la torta, nella classe Prima. Il tempo di un applauso ed ecco il branco che torna nella propria aula, con l’acquolina in bocca.
Ma la cattedra è vuota, l’insegnante si guarda attorno in cerca di qualcosa: - Dov’è il pacchetto? Lo avevo lasciato là. –
Teste che ruotano, sguardi che esplorano ovunque: niente da fare, il regalo è sparito, l’oggetto prezioso, scelto con tanta cura, è svanito.
Sono bastati pochi minuti perché una mano abile e una mente non più innocente abbiano potuto agire. Uno scherzo, cupidigia precoce o solamente la mancata distinzione tra ciò che è bene e ciò che è male? Non si sa cosa abbia spinto il ragazzino o i ragazzini a rubare quell’oggetto.  Quel che è certo è che l’amarezza abbia sostituito in un attimo tutta la felicità, e la sensazione che serpeggia adesso tra i ragazzi ammutoliti è quella di aver fatto qualcosa di sbagliato: aver avuto fiducia nel prossimo.
Un piccolo furto, un gesto che spesso viene liquidato come una semplice “ragazzata”, ha causato danni minimi in termini di denaro, ma giganteschi per la formazione di quei giovani: il doversi guardare da chi ci sta accanto è il primo passo verso l'egoismo.
Sarà ancora il nostro professor Keating a trasformare tutto ciò in un esempio di vita.


 

giovedì 29 novembre 2012

Garth Stein, Cose da grandi, PIEMME


La vita di Evan è basata su pochi punti fermi: la chitarra, il suo gruppo rock, qualche amico e nessuna relazione sentimentale. Ad alterare questa linearità, questa monotonia costruita con tanta costanza, ci sono elementi di forte disturbo: in primo luogo l’epilessia, la malattia vergognosa che i suoi genitori perfetti, rispettati ed ammirati in tutta Seattle, gli hanno insegnato a nascondere. Poi il meraviglioso fratello, con la sua bella famiglia, il suo stimabile lavoro, la bella casa.
Evan cerca di ignorare questi intoppi, di vivere alla giornata, attaccandosi alle gioie del momento: i concerti, le prove in sala di registrazione, qualche cibo esotico. Meglio non imporsi troppe regole, lasciare che la vita scorra, libera da progetti e pianificazioni.
Peccato che la vita non sia della stessa idea e che, in un torrido giorno d’estate, Evan debba assistere al funerale di Tracy, la madre di suo figlio Dean. Non lo vede da quattordici anni, da quando era un urlante neonato nella nursery dell’ospedale. Poi Tracy è sparita, semplicemente, lasciando una casa deserta e vuota e lui non ha più avuto sue notizie fino ad oggi, quando riceve una telefonata: un camion l’ha travolta e uccisa.  
Ora suo figlio è lì con lui, gli stringe la mano e non lo respinge; Evan vuole conoscerlo, passare un po’ di tempo con quel ragazzo sconosciuto. Non troppo, qualche giorno a girovagare per centri commerciali e luna park, ad ascoltare concerti e suonare nella casa di registrazione del suo gruppo. A fare le stesse cose di sempre, insomma, come due amici che vogliono divertirsi. Del resto lui non è in grado di badare ad un figlio, a malapena riesce ad essere autosufficiente, a non ammazzarsi in auto in preda alle convulsioni. Non è questo che gli ripete sempre sua madre, offrendogli un aiuto che Evan non desidera? Non è questo che gli ha insegnato Tracy allevandosi da sola il bambino?
Come può pensare di fare il padre quando è ancora un bambino egli stesso, che si autocommisera ripensando in continuazione alle sue sventure passate e si crogiola nel rancore? Anche Mica, la meravigliosa ragazza che sembra attratta da lui, ha tutta l’autorevolezza di una madre e Evan vede in lei la possibilità di un futuro, quindi un ennesimo intoppo.
“Cose da grandi” è un romanzo scorrevole, che analizza con semplicità un rapporto tra uomini che, al contrario di quanto afferma l’autore, non sono “geneticamente progettati per non parlare di poesia” e di sentimenti.

 

domenica 25 novembre 2012

Claudio Rolando

Prima serata di presentazione del libro "Serge il sorcio", 23/11/2012

Alle nove di sera di venerdì 23 novembre, le sedie sono tutte occupate, nella sala della biblioteca di Giaveno, e, man mano che l’ora d’inizio si avvicina, altre devono essere aggiunte nel corridoio di passaggio e, comunque, qualcuno alla fine rimarrà in piedi.
Questo è l’effetto che fa il nome di Claudio Rolando nell’ambiente culturale della città.
Ex direttore del Parco dei Laghi di Avigliana, insegnante, biologo e scrittore, la sua presenza attira molti affezionati lettori, e il suo nome nel cartellone di una serata è garanzia di tutto-esaurito.
Dopo molti saggi naturalistici e libri fotografici, la vena di Rolando, ha deviato verso la produzione narrativa: all’inizio racconti a sfondo storico o comunque locale; poi, con “L’altra parte del mondo” ha affrontato un tema autobiografico, narrando di un viaggio compiuto in Australia con la figlia adolescente. Ma è con questa sua ultima opera, “Serge il sorcio” (NEOS edizioni) , che Rolando apre le porte al romanzo.
- Avevo in mente la trama fin da quando mi sono trovato in una stazione del metrò di Parigi ad osservare le evoluzioni di un topolino nella massicciata dei binari - spiega l’autore al suo pubblico. Una semplice idea, pian piano cresciuta durante i suoi momenti prediletti di flaneur per le vie di Parigi.
- Come se fosse un segno, un giorno ho visto un altro topolino sotto il piancito del dehors di un bistrot: doveva essere lui il mio protagonista. E dire che io detesto i topi! - e il pubblico attento ride.
- Certo, si ride anche in questo romanzo – spiega Silvia Ramasso, responsabile della NEOS edizioni, - e si viene catturati dalla trama, che ha del noir, del poliziesco, ma senza violenza. C’è fin troppa violenza in questo mondo, non credete? –
Ma anche angoscia, apatia, e il protagonista “umano” del libro, Leo Delfos, ne è vittima. Trascina le sue giornate senza sentimenti, finché non incontra un nuovo amico.
- Molti animali sono in grado di comunicare con gli umani – dice il nostro autore, qui con  la voce del naturalista. – Riescono a capire parole e stati d’animo; io ho spinto un po’ avanti questo tipo di comunicazione, sfruttando il clima positivista degli anni in cui è ambientato il romanzo. Nel 1957 c’era infatti una grande fiducia nella scienza, che stava dando enormi risultati, e si pensava che il progresso non potesse mai aver fine. –
Un progresso legato inevitabilmente , nel nostro immaginario di lettori, alla guerra fredda e allo spionaggio: ingredienti accattivanti e appetitosi.
- La scrittura, però, non è divertimento, o almeno non solo. Ogni giorno bisogna scrivere e riscrivere e, alla fine, rileggere le bozze e cambiare, aggiungere, sfrondare – Claudio Rolando toglie l’alone romantico all’immagine dello scrittore. – Ci sono giorni in cui non c’è modo di trovare una frase, anche stando al computer per ore; poi arriva un’idea, ma bisogna dominarla, costringerla ad adattarsi alla pagina. E’ un grosso impegno, sebbene affascinante. –
Il pubblico applaude e si avvicina, con il libro in mano: è il momento più bello di una presentazione, l’incontro a tu per tu con lo scrittore, le parole che lui metterà nella prima pagina della nostra copia, facendone un pezzo unico, da conservare con affetto.

 

 

 

 

giovedì 8 novembre 2012

Novembre


Novembre, il mese opaco; trenta giorni che sembrano i più lunghi dell’anno.
E’ inverno, ma senza il Natale; è freddo, ma senza la neve. Il buio scende nel pomeriggio, quando ancora ci sembra di avere tutta la giornata davanti; la pioggia attraversa gli strati di lana che abbiamo scovato, frugando a malincuore tra gli abiti di cotone e le magliette estive, ormai accantonate. Le foglie tentennano sui rami degli alberi, incapaci di scegliere e, nell’attesa, il loro colore sbiadisce lentamente ai raggi del sole al tramonto.
Il primo giorno di novembre è il più triste: vaghiamo tra le tombe grigie, scricchiolando ghiaia con le nostre scarpe eleganti; sentiamo gli spifferi gelidi sotto le falde del giubbotto leggero, ma ancor di più odiamo il sole luminoso che non scalda e svanisce presto, troppo presto.
Eppure solo novembre, con la sua vaghezza, la sua indeterminazione, ci stupisce con i mattini più splendenti di rossi e gialli, ci sorprende alla sera con una nevicata leggera e magica. Negli orti le piante appassiscono e si accartocciano, ma i cavoli esultano con le loro foglie grasse, gonfiandosi in una corona dal cuore sostanzioso. Le castagne sono ottime con il vino rosso e il miele, la zucca ammicca col ghigno fasullo della festa importata di Halloween e si lascia cucinare in cento modi succulenti. Gli amici entrano volentieri nella nostra cucina calda e odorosa di biscotti, avvicinando le mani al fuoco di legna e la vicinanza è già una festa.
E con la scusa del buio, la giornata lavorativa sembra più breve e, prima di sederci a tavola, in attesa che la pasta sia cotta, o il pasticcio ben caldo nel forno, ci sediamo in poltrona a leggere un bel romanzo: tanto è già sera. 

 

 

lunedì 5 novembre 2012

Sarah Rayner, Un attimo, un mattino, Guanda


Il sette e quarantaquattro per Victoria Station è partito in orario; a bordo i soliti passeggeri annoiati, sonnecchianti o intenti a lasciar scorrere il panorama oltre i vetri, per poter pensare alla giornata lavorativa che sta cominciando.
Lou osserva gli altri passeggeri: le piace immaginarsi le loro vite, i diversi caratteri: del resto è il suo mestiere, la psicologia.
Anna, poche carrozze più avanti, sta sfogliando serenamente una rivista di moda; per lei, copywriter impegnata, la mattina è piacevole dedicarsi al gossip e agli abiti appena comparsi nelle vetrine.
Poi, all’improvviso, il mondo si ferma: l’uomo di fronte a Lou, così affettuoso con la moglie seduta al suo fianco, si accascia all’improvviso. E tutto cambia per sempre.
Assistiamo con angoscia ai primi, inutili, soccorsi a quell’uomo, con lo sguardo ansioso ma distaccato di Lou. Ci allontaniamo con un po’ di apprensione dalla scena, per poi ritrovarci immersi nella sua storia, nella sua stessa vita ormai al termine. Con le regole assurde dei giochi del destino, Lou conosce Anna, prima ancora di sapere che è la migliore amica della donna che ha appena perso il marito in modo così inaspettato.
I minuti seguenti, le ore, i giorni delle tre donne si legheranno in modo imprevedibile; gli avvenimenti dolorosi che le coinvolgeranno le porteranno a conoscersi ben al di là degli affrettati giudizi apparenti. Il lutto profondo che ognuna di loro dovrà affrontare in modo diverso, le porterà a comprendere la grande statura morale di quell’uomo, e ad accettare le sfaccettature della natura umana.

Un libro che sfiora nervi scoperti, che porta la nostra sensibilità al limite del dolore, ma senza compiacersi nella sofferenza. Sarah Rayner analizza i sentimenti più profondi eliminando i falsi pudori: l’amicizia tra donne, l’amore coniugale e filiale, la solitudine e l’inadeguatezza sono sezionati e ricomposti, in un scrittura veloce e schietta, mai scontata.
 

 

mercoledì 31 ottobre 2012

Ken Follett, L'inverno del mondo, Mondadori


Di Ken Follett tutto è stato detto; su ogni settimanale, quotidiano o mensile d’Italia è comparsa una recensione del suo ultimo romanzo; eppure in qualche modo sento la necessità di parlarne, e bene.
Certamente non è una lettura che consiglierei a chiunque: le 956 pagine scoraggiano il lettore distratto e saltuario; i quasi cento personaggi, senza contare le comparse, possono preoccupare e intimorire. Eppure penso che ne valga veramente la pena.
Dopo aver lasciato a malincuore nella “Caduta dei giganti” i soldati, le loro mogli, i politici e i trafficoni al loro destino, li ritroviamo nel 1933, alle soglie della vittoria elettorale di Hitler, nel momento più cruciale della storia dell’Europa e del mondo.
Ken Follett ci guida attraverso gli anni più bui del Novecento portandoci nelle case di Berlino dei socialdemocratici che assistono raggelati all’ascesa delle camicie brune; ci mostra le difficoltà via via più assurde di un medico ebreo alle prese con le devastazioni delle leggi razziali. Ci fa conoscere un sindacalista inglese e, attraverso i suoi occhi, ci mostra le debolezze che permisero al fascino nazista di insinuarsi anche nelle menti di alcuni cittadini britannici; ci fa comprendere l’ardore che spinse giovani antifascisti di ogni nazionalità ad opporsi al franchismo nascente, combattendo a fianco del governo ufficiale spagnolo.
Leggendo le frasi scorrevoli ed avvincenti, guidiamo frenetici un’ambulanza nelle strade bombardate di Londra, passeggiamo sereni nei viali della base militare di Pearl Harbor, restando sbalorditi all’arrivo degli aerei giapponesi, attraversiamo la manica attraverso le nuvole in tempesta per gettarci con il paracadute sul territorio francese occupato dal’esercito tedesco. E infine, vediamo le rovine di Berlino e la magrezza delle vedove farsi contrasto alle parole tronfie dei politici, pronti a spartirsi la Germania come vincitori.
La storia delle nostre conoscenze scolastiche prende vita, salta fuori dalle pagine e ci trascina, anche a riprendere in mano libri impolverati negli scaffali.

 

domenica 28 ottobre 2012

Cambio dell'ora


28 ottobre, la mattina più bella dell’anno, quella in cui ci si sveglia con una luce lattiginosa che penetra dalla finestra, si guarda la sveglia e, mentre la nostra gola è già pronta ad emettere il solito grugnito mattutino, un pensiero ci illumina: è cambiata l’ora.
All’improvviso il tempo davanti a noi sembra estendersi all’infinito, e mille meravigliose possibilità si spalancano alla mente, prima fra tutte girarsi e tornare a dormire. Poi, però, tutti quei minuti ci attirano e pensiamo al romanzo appassionante sul comodino, ai pancake che non cuciniamo da tanto tempo, alla cara amica lontana che da mesi non riceve una nostra lettera. E ci alziamo, colmi di un entusiasmo che solo in quel giorno ci avvolge, zampettando in cucina con un sorriso ingiustificato sulle labbra.
Ma appena messo piede sulle fredde piastrelle, ci blocchiamo. Una sensazione strana, un idea sospesa e indefinita ci fa voltare la testa qua e là, in cerca di un qualcosa che, impercettibilmente, ci turba.
Ed ecco, lo sguardo finalmente va alla porta-finestra, a quell’alone biancastro che attraversa i vetri non pulitissimi. Increduli e ansiosi come un bimbo la mattina di Natale, avviciniamo il naso al vetro gelido e spalanchiamo gli occhi a quello spettacolo: la neve. Candidi, enormi fiocchi scivolano a terra, coprendola di un manto bianco; ricoprono le tegole dei tetti vicini, i mancorrenti dei balconi e le foglie ancora ben salde sugli alberi.
Non durerà, lo sappiamo, eppure ci sembra di non aver mai ricevuto regalo più bello.

 

sabato 13 ottobre 2012

Diritti e doveri


Leggendo un quotidiano del venerdì, con in mano tazza di caffè lungo della mia pausa di metà mattina, mi ritrovo a leggere e condividere pienamente questa frase:
“… non sarebbe giusto e doveroso levargli per sempre i diritti civili, primo tra tutti quel diritto di voto che hanno esercitato con tanta disonestà?”
Estrapolando dal contesto, ritengo che la frase fornisca comunque stimoli notevoli per la riflessione, attività per cui Michele Serra (l’autore della frase, che io stimo anche quando non condivido le sue opinioni) è fortunatamente noto.
Il diritto di voto, che noi diamo per scontato, non avendo partecipato alle lotte per la sua conquista, è obbligatorio? Perché individui che, prove alla mano, non hanno accettato le condizioni della democrazia possono comunque usufruirne? Come genitore so che un bene è tanto più apprezzato quanto è difficile procurarselo.
 
Non accade la stessa cosa con il famigerato “tempo libero”? Quando, nel 1833 in Inghilterra, le rivolte degli operai portarono ad una legge che vietava di far lavorare di notte i bambini sotto i dodici anni e per più di dodici ore al giorno quelli sotto i diciotto, si pensò, probabilmente, ad una conquista importantissima: le ore di sonno.
Adesso il tempo libero è uno spazio da occupare, da farcire con qualcosa che impedisca la noia.
Non ho soluzioni da proporre, ma credo che un maggiore attaccamento ai diritti conquistati possa derivare dal vederli anche come dei doveri da condividere per il bene della comunità, dal piccolo della famiglia, al mondo intero. 
 

venerdì 5 ottobre 2012

John Graham Davies, Ho battuto Berlusconi!, 66th and 2nd


Immaginate un pub a Liverpool, buio e affollato; si beve birra scura, si parla a voce alta, si ride. Ad un tavolo c’è un gruppo di amici; discutono di calcio, di allenatori, azioni perfette, memorabili trasferte. Ogni tanto il volume cresce, cadono pugni sul tavolo, esclamazioni sguaiate commentano la situazione economica difficile, il lavoro che non c’è, i sussidi statali che tardano. Poi scende il silenzio, la mente ritorna agli anni bui del governo Thatcher, agli incidenti negli stadi. Qualcuno fissa il boccale, qualcun altro scuote la testa; una pacca sulla spalla, un “altro giro, offro io” e di nuovo si ride e si urla.
Il lungo monologo di Kenny, protagonista di “Ho battuto Berlusconi”, è come un’intera tavolata di amici ciarlieri e brilli. Leggendo le parole di John Graham Davies, sembra di ascoltare il tono di voce dell’unico attore in scena che interpreta tutti i personaggi, e non pare nemmeno necessario guardare le immagini che, nelle rappresentazioni teatrali, vengono proiettate sullo sfondo, rendendo sicuramente ancora più coinvolgenti le battute.
Kenny è, frase dopo frase, suo padre, sua moglie comprensiva ma sanguigna; è Minty, l’amico spacciatore; è un direttore di banca, un tifoso, un poliziotto; è un ragazzino di periferia, un giovane disoccupato, un padre pieno di debiti e sogni, pronto a tutto per seguire la squadra del Liverpool anche ad Istanbul.
L’umorismo di Davies è politicamente scorretto, anche volgare; incarna perfettamente lo spirito scouse, cioè di Liverpool, come spiegano Pietro Deandrea e Marco Ponti, i traduttori, nella postfazione del libro.  Un umorismo ben lontano da quello inglese, ma perfettamente in sintonia con un pubblico italiano. E con l’Italia il libro ha un legame notevole, a cominciare dagli eventi tragici narrati da Kenny, come la tragedia dello stadio Heysel di Bruxelles, per finire con la clamorosa sconfitta di Berlusconi, in qualità di proprietario del Milan.
Tra le frasi spassose o malinconiche, in mezzo agli eventi della politica britannica degli ultimi quarant’anni, serpeggiano i grandi successi calcistici della sua squadra del cuore; raccontati, anzi, vissuti in modo trascinante, anche per chi, come me, pensa che il calcio sia quello che si giocava nel prato dietro casa, con un pallone di plastica Tango.

 

giovedì 27 settembre 2012

Sport estremi

Nel corso dei secoli, l’uomo ha sempre cercato emozioni e brividi. Una volta soddisfatte le necessità primarie (mangiare, dormire al caldo e al riparo, procreare), la fantasia umana si è ingegnata di escogitare sempre nuovi modi al limite del buon senso (e talvolta ben oltre) per eccitarsi.
Fin dalla notte dei tempi il coraggio è stato sinonimo di temerarietà, nonostante siano due concetti lontanissimi tra loro. Il “vero uomo” doveva dimostrare di non temere nulla: gli scontri corpo a corpo, le belve feroci, le altezze, il calore che consuma e il gelo che mutila. Poco importa se, al termine della prova di ardimento, solo alcuni dei valorosi sopravvivevano: è la legge del più forte, una distorsione del concetto darwiniano di selezione naturale.
Col passare degli anni, anzi, dei millenni, la vita ha perso quell’alone di rischio che tanto piaceva all’uomo temerario. Così se l’è inventato. Non ci sono più duelli? Proviamo col kickboxing. Le rupi non sono più un ostacolo da saltare in fuga? Gettiamoci col bungee jumping. Volare è semplice come andare in treno, e anche meno rischioso statisticamente?
Prendiamo un telo di nylon, leghiamo delle cordicelle alle estremità e buttiamoci nel vuoto con quello. 
E poi ancora. Mettiamoci gli sci e lanciamoci in un canale ghiacciato, sormontato da un bel mucchio di neve fresca e instabile, magari cantando uno yodel a squarciagola. Scendiamo lungo un torrente impetuoso, ricco di belle rapide roboanti, non in canoa (troppo semplice), ma aggrappandoci alle rocce umide che lo affiancano.
Misteriosamente, la montagna ha da sempre fornito ambienti e occasioni per cercare il brivido (e l’ospedale più vicino). I suoi dolci pendii, i boschi accoglienti, i laghetti scintillanti, pur decantati dagli animi più poetici, come quelli di letterati e pittori, non suscitano simpatia nel “vero uomo”. Ma i suoi spigoli, le voragini, le cime aguzze, gli imprevedibili corsi d’acqua, in ogni stagione e in ogni stato fisico, esercitano un fascino magnetico, e l’eroe ci casca, in tutti i sensi.
Ma vorrei qui sottolineare un tipo ben diverso di eroe della montagna, un imprevedibile soggetto che tanti grattacapi dà al Soccorso Alpino: è l’ottuagenario cercatore di funghi.
Quando le prime nebbie strisciano lungo i pendii boscosi, ecco che il vegliardo, in piedi almeno alle cinque del mattino, parte col suo cestino e il fido bastone. Non saluta nessuno, non avverte parenti e amici del suo vagabondo e solitario cercare, non avvisa moglie, figli o amici della sua destinazione. Lascia la macchina in un parcheggio in vista, in una borgata frequentata e poi, con un sogghigno furbesco, devia in sentieri che solo la sua mente vede tra gli alberi. Conosce cenge muscose, massi erratici dalle ombre umide di porcini, radici intricate di faggi generosi; più impervio è il cammino, più probabile trovare zone sconosciute, con moltitudini di succulenti miceti.  
Nel suo prolungato scrutare per terra, però, dimentica di alzare lo sguardo al cielo, o semplicemente sul quadrante del suo orologio: ogni foglia può celare un gruppetto di funghi e il domani è troppo incerto per aspettare. Non si accorge, il tapino, del calare delle tenebre, che sopraggiungono furtive; così, inaspettatamente al buio, sorpreso e spaventato come una Biancaneve inseguita, affretta il passo verso la macchina, rischiando ad ogni momento di inciampare o rotolare lungo il pendio. Le rotule vegliarde, il metatarso logoro non gli sono d'aiuto e le subdole foglie umidicce gli tendono continui tranelli. 
Per questo la sua passeggiata spesso si conclude non nella buffa casetta di nani barbuti, bensì sulla barella di altrettanto barbuti ragazzoni vestiti di rosso, con una croce bianca in campo giallo cucita sul petto. 

lunedì 24 settembre 2012

Piove


La pioggia in montagna ha un sapore diverso; sa di foglie, di terra e di neve, in qualunque stagione.
Oggi è fredda, sembra che in ognuna di queste grosse gocce ci sia un anima gelata. Cadono da un cielo color fumo, percuotendo le spalle della giacca impermeabile, infilandosi nel collo, se appena ci si dimentica il colletto abbassato. Non si può usare l’ombrello in montagna:  non si passeggia sulle strade in salita, sui sentieri fradici, con la mano alzata a reggere un manico curvo; non si ascolta il canto delle foglie sotto una cupola di nylon. Un cappello di panno, un berretto di lana infeltrita proteggono e riscaldano, e lasciano le mani libere di infilarsi in tasca o di scostare davanti al nostro viso un ramo gocciolante.
La pioggia in montagna è vivace, discola, non resta uguale, ma saltella qua e là, illude con brevi lampi di sole per poi tornare ridacchiando a inondare i balconi ornati di panni stesi. E durante queste brevi tregue, lungo i pendii erbosi, che per tanti giorni sono rimasti aridi e gialli per la sete, le nuvole risalgono veloci, evaporano con timore, non osando alzarsi da terra, e accarezzano la salita come fantasmi benigni.
Poi ricomincia, non all’improvviso, ma con piccoli cenni discreti. E a quel punto la pioggia cade e non si ferma, scivola sulle strade, forma piccole pozzanghere, e corre nei rigagnoli, nei torrenti e trascina a valle tutto quello che la valle non vorrebbe ricevere. Cumuli di foglie marce, tronchi abbattuti dal vento impetuoso del giorno prima, rami, rottami abbandonati da turisti incauti; tutto scivola nel greto dei torrenti e si blocca nei ponti, forma dighe estemporanee, raccoglie tonnellate d’acqua che non aspettano altro che di rovesciarsi nei fiumi sotto di loro con energia esplosiva.
Ma arriva, dalle cime gelide e amiche, una corrente glaciale e le grosse gocce accettano il gelo e l’anima diventa cristallo, costellazione perfetta che si posa e non scivola.
E la pianura gioisce.

 

sabato 1 settembre 2012

26 agosto

E' sera, il sole è finalmente coperto di nuvole che promettono pioggia. Il caldo è torrido e dobbiamo andare in terrazzo, a cercare il minimo refolo d'aria.
E ad un tratto ecco le rondini. Volano sopra le nostre teste, d'un volo basso, lento, casuale. Il loro verso è dolce, morbido; la loro danza sempre più vicina, a ricordarci l'arrivo della pioggia.
Restiamo con il mento alzato, ad osservarle volteggiare in linee aggraziate, senza uno schema apparente; sul nostro volto un sorriso stupito per questo inaspettato regalo.

Riflessi


La casa era spuntata quasi all’improvviso, come per un incantesimo: un giorno non c’era e il giorno dopo eccola là, in mezzo a quell’erba alta, incolta, circondata di macerie.
La rete arancione era stata tolta in tutta fretta; qualcuno si era preso la briga di pulire  e, al posto di quella lurida betoniera, era apparso il cartello “Vendonsi appartamenti”, con quel tono ufficial-accattivante tipico delle agenzie immobiliari.
L’occhio non poteva proprio evitarla, così sfolgorante di rosso amaranto, di vetrate lucide, con i loro bravi feltrini bianchi, a simboleggiare la novità. Anzi, ci si chiedeva come fosse stato possibile, fino a pochi giorni prima, ignorarla, nascosta solo da una rete da cantiere.
Anche Margherita l’aveva notata. Ogni giorno era passata lì davanti con le sue compagne, senza far caso a quella recinzione, a quelle disgustose erbacce pungenti. Erano scese ogni mattina, dopo la mungitura; avevano attraversato docilmente la stradina seguendo Gian, accompagnate dal Nero, che non abbaiava nemmeno più, tanto erano abituate. Ed ogni sera, molto prima del tramonto, erano ritornate alla loro stalla, fresca e pulita, con i loro vitellini al fianco e le mammelle gonfie.
Poi un mattino, col sole che brillava già alto in quell’inizio estate, la rete era scomparsa.
E adesso Margherita era lì immobile, davanti a quella vetrata spaziosa e invitante; se ne stava lì, con le pesanti zampe ben piantate nel terreno polveroso, ad osservare con occhi buoni quella sua gemella senza odore.
- Muuu – fece alzando il muso, e la gemella la imitò, osservandola dalla grande vetrata al pian terreno.
- Muuu – fece ancora Margherita, avanzando di un passo verso la nuova compagna che, sfrontatamente, muggiva verso di lei, forse aggressiva.
La vacca bonaria, la preferita di Gian, che ogni autunno la portava alla fiera più per averla al fianco, che per esporla, si mosse ancora in avanti, dimenticando il suo carattere mansueto e la sua dolcezza. Bisognava subito chiarire, con quella lì, di chi era il pascolo, di chi era il sentiero. Che non si mettesse in testa, lei, che non profumava nemmeno di buon letame fresco, di imporre la sua presenza.
-Wof! Wof! – latrò all’improvviso il Nero, comparso, chissà come, al fianco di quella impertinente.
- Wof! – ripeté, questa volta all’orecchio di Margherita, che voltò il grande muso con tutta la rapidità di cui era capace, trovandosi il cane proprio davanti alle larghe narici. Il cane abbaiò ancora un paio di volte, poi si mosse sul sentiero e la vacca, lentamente, si avviò verso il pascolo con le sue compagne, certa che il Nero avrebbe risolto tutto, come sempre.
La sua gemella, rassegnata, si voltò e si incamminò oltre il vetro, scomparendo alla loro vista.

giovedì 2 agosto 2012

Violenza


Ma cos’è questa violenza inaudita, allevata al buio delle pareti di case apparentemente felici? Perché tra i membri di famiglie che mostrano un volto, se non proprio sereno, almeno rassegnato nasce un impulso ad uccidere?
La violenza cresce lentamente, la follia è difesa da un dolore troppo grande, che il tempo non riesce a sconfiggere. Ma il gesto è improvviso, l’arma quella che si trova in casa, a portata di mano; non ci sono premeditazione o calcolo. Attuarlo non è la realizzazione di un progetto, ma la liberazione di una parte di sé che non si vuole, che si detesta e che si vede proiettata in chi ci sta accanto.
Ascoltando alla radio queste notizie si scuote la testa, si abbassano gli angoli della bocca, ci si chiede come è potuto accadere. Ma la vera, profonda domanda è: perché noi, che viviamo fianco a fianco, che incontriamo i figli, le mogli, i mariti di questi potenziali omicidi, non facciamo niente per evitarlo?
Troppo comoda la risposta “Non lo sapevo”, conoscere non significa venire informati, significa cercare. “Se non chiedi, non sai”, canta Caparezza, il poeta-filosofo.
Cercare tra le rughe di un volto pallido, tra i tremori delle sue mani, lo sfuggire dei suoi sguardi. Cercare significa leggere i post di facebook, anche se non  fanno ridere, anche se sembrano protagonismo imbarazzante. Significa leggere tra le pagine del diario scolastico non i risultati apparenti, la misura della preparazione che sembrano darci i voti, ma l’infelicità di un figlio diviso tra giorni, weekend, amici e fidanzati dei genitori.

Forse significa amare?


martedì 24 luglio 2012

Ronald E.Capps, Una canzone per Bobby long, Mattioli

Vivere ai margini della società è una frase che definisce la società come un insieme chiuso, con dei confini, dei limiti, oltre i quali si è qualcos’altro. E cos’altro? Le denominazioni si sprecano: irregolari, extracomunitari, borderline, emarginati, perdenti e chissà quante altre che Bobby Long, esimio ex-professore universitario, sarebbe in grado di dare e di contestare nello stesso momento. Forse è proprio per questi confini che lui e Byron, ex-insegnante alcolista, sono usciti dalla società stessa, probabilmente senza neanche rendersene conto. Le loro giornate si trascinano tutte uguali, nei sobborghi di una New Orleans ancora non devastata da Katrina, in stanze scrostate, senza letti o tavoli, ma piene di libri e bottiglie vuote. Le donne si offrono alle loro voglie insaziabili sentendo un fascino che la sporcizia e l’alcol non hanno cancellato.
In questo mondo a parte, l’ingresso della sedicenne, splendida, Hanna è un vento fresco, una primavera lenta ad arrivare ma persistente. E’ la figlia di Lorraine, bulimica amante di entrambi gli uomini, morta di infarto, piena di rimpianti per la figlia.
Con la tranquillità dei personaggi di Steinbeck, Bobby e Byron si prendono cura della loro”passerina”. Con un secondo fine? Può darsi, ma spesso è difficile, per chi ha deciso di dimenticare le regole della vita civile, accettare le proprie qualità.




Da questo romanzo è stato tratto, nel 2004, un ottimo film, uno dei pochi film che superano, per bellezza e completezza, il libro. In questa versione, Bobby e Lawson non sono solo amici, ma professore e assistente, ambedue cacciati dall’università. C’è tra loro un rapporto di dipendenza, alimentato da sensi di colpa, che trascina entrambi senza apparente redenzione, in lunghe giornate di apatia amara.
L’apparire di Purslane, il cui nome vuole evocare la delicatezza e perfezione della ragazza, sarà la scintilla che farà scoppiare il loro fragile equilibrio, donando loro l’occasione per uscire da una vita inutile e disperata.
Grazie alla fotografia spettacolare, alle musiche e ai caratteristi, la cui recitazione non è mai eccessiva, il romanzo di Ronald Everett Capps acquista un calore tipico degli stati del sud. Le citazioni letterarie e i dialoghi curatissimi rendono viva e plausibile una favola contemporanea a lieto fine.

giovedì 19 luglio 2012

Vuoi essere montanaro?


Ci sono sicuramente diversi ostacoli per chi, da una città della pianura, si trova costretto a trasferirsi, anche solo per una breve vacanza, in un paese di montagna; come del resto è certo il contrario. Il primo si troverà ad affrontare salite ripide, discese impervie e rimarrà stupito di fronte ai marciapiedi dalla forma fantasiosa, che si allargano e restringono in modo imprevedibile e creativo, quasi un progetto di Gaudì. Il secondo ammirerà stralunato la lunga linea dell’orizzonte, le proporzioni gigantesche della prospettiva a perdita d’occhio, la chiassosa e continua fila di automobili.
Eppure, nel lungo periodo di adattamento necessario, uno dei maggiori ostacoli sarà l’uso del clacson.
Nella città di pianura, al conducente patentato, questo necessario strumento può servire:

1: per sollecitare con piccoli colpi l’automobilista fermo al semaforo di fronte a lui mentre scrive un appunto, si passa il rossetto, cambia il CD, esplora con dita diverse le sue cavità nasali.

2: sveltire il pedone che attraversa, con cane al guinzaglio, sulle strisce.

3: precedere la salva di gestacci indirizzati a chi gli ha tagliato la strada all’incrocio.

Nelle stradine di montagna il suddetto strumento serve per:

1: salutare l’edicolante appoggiato allo stipite della porta

2: salutare lo zio affacciato alla finestra del primo piano

3: precedere la salva di gestacci indirizzati al barista che ha perso l’ennesima partita di calcetto la sera prima.

4: ultimo, ma non per importanza, segnalare il proprio arrivo all’ennesima curva, onde evitare lo scontro o anche solamente lo struscio contro l’auto proveniente in direzione contraria.

Questo è indubbiamente l’uso più difficile da apprendere per i neo-montanari, che dovrebbero, prima del trasloco definitivo, seguire un apposito corso. Tenterò di riassumerne qui i punti principali.
Innanzitutto il montanaro è un giocondo personaggio, generoso e altruista sicuramente; eppure siate certi che suona il clacson in curva non per avvisare voi in un gesto di amorevole lungimiranza; quindi, arrivando ad un tornante, o anche ad una semplice curvetta priva di visibilità, se sentite lo squillante beeep, suonate anche voi. Non è un saluto, è prevenzione.
Inoltre, nonostante le strade di montagna possano sembrare completamente abbandonate a causa di buche, piccoli massi dimenticati sul ciglio o alberi abbattuti dal vento lungo i rigagnoli a bordo strada, sappiate che così non è. Quindi è possibile (credetemi, lo è veramente) incrociare qualcuno proveniente dalla direzione opposta.
Da ultimo, sebbene sia risaputa la naturale giovialità degli abitanti dei paesini suddetti, essi non suonano il clacson per dare il ritmo alle canzoni che cantano a squarciagola seduti sui loro sedili del guidatore; se non in rare occasioni, solitamente precedute da un matrimonio o da una festa patronale.
Informarsi sul sito dell’ufficio turistico prima di intraprendere un viaggio o una gita.




sabato 14 luglio 2012

Anne Tyler, Guida rapida agli addii, Guanda

Ogni singola vita può essere raccontata come un romanzo; ma quando si tratta della vita semplice di un uomo normale, che nelle sue peculiarità non ha nulla di emozionante ed originale, solo un grande scrittore riesce a trasformare la quotidianità in narrazione.
Aaron è impiegato nella casa editrice di famiglia, una azienda che si occupa di pubblicazioni a pagamento e di manuali di facile vendita. Ha un leggero handicap di cui non sembra preoccuparsi, salvo poi irritarsi quando qualcuno glielo fa notare; una sorella protettiva che lavora con lui, di cui però teme da sempre il giudizio;  una bella casa e una moglie. Ma questo solamente ad un primo, superficiale sguardo.
A trentacinque anni resta vedovo, a causa di un incidente banale ed evitabile. La sua vita, al contrario di quello che potrebbe accadere, non viene sconvolta, ma, giorno dopo giorno, subisce mutamenti appena percettibili, eppure radicali. Lasciandosi trascinare dal destino, senza opporre una troppo vigorosa resistenza, Aaron si trasferisce da sua sorella e inizia suo malgrado la ristrutturazione della casa. Dopo un periodo di solitudine, ricomincia a frequentare gli amici e i parenti, non più, come in precedenza, in modo passivo, ma scegliendo il modo e il momento.
In questo percorso, ad un tratto, compare la figura di Dorothy: non un ricordo sfumato, ma una vera persona, che gli appare al fianco nei luoghi più improbabili. Poche frasi pronunciate dalle sue labbra saranno il punto d’avvio per una riflessione sempre più cosciente di quel che era il loro matrimonio, fino a condurre il protagonista ad una consapevolezza mai conosciuta.

domenica 1 luglio 2012

Mary Ann Shaffer, La società letteraria di Guernsey, Sonzogno


La capacità di un autore nel raccontare gli orrori di una guerra sta anche nel non cadere nel facile consenso del tragico, del raccapriccio, della lacrima a tutti i costi. Questo è indubbiamente uno dei pregi dell’unico romanzo scritto da Mary Ann Shaffer, a solo un  anno dalla sua morte. Bibliotecaria e amante dei libri per tutta la vita, creò il personaggio di Juliet Ashton dopo un viaggio all’isola di Guernsey, una delle isole del Canale della Manica, occupate dai nazisti come punto strategico all’inizio del conflitto.
Siamo nel 1946, in una Londra devastata dai recenti bombardamenti; Juliet, scrittrice che ha raggiunto la fama grazie ad una raccolta di articoli pubblicati durante la guerra appena terminata, viene contattata per lettera da un gruppo di persone che, per un caso assolutamente fortuito, hanno creato la Società Letteraria della Torta di patate. Le diverse personalità attirano la sua curiosità di scrittrice e le suggeriscono l’idea di un nuovo libro. Grazie alle diverse lettere inviate da lei e da tutti coloro che bene o male partecipano alla vicenda, nasce un romanzo corale in cui gli episodi terribili della guerra, dell’occupazione e della deportazione, diventano il motore di una rinascita, e lo spunto per episodi di puro divertimento.

Galline ovaiole

La signora Cesira (nome rigorosamente falso per rispettare la sua privacy, parola di cui ignora sicuramente il significato) vive in una casetta di mattoni, con il tetto in coppi che crede vecchi, senza sapere che potrebbe venderli a sessanta centesimi l’uno, se solo le interessasse venderli.
Nel suo cortile, dove arrugginisce indisturbata una vasta esposizione di attrezzi decrepiti, razzolano sei paffute bionde piemontesi.  Nonostante ad un occhio inesperto possano sembrare cloni di una stessa gallina-donatrice, la signora Cesira le riconosce senza fatica e ogni mattina, anche quando piove ininterrottamente da diversi giorni, anche quando la neve ha ricoperto tutto il cortile e trasformato in un parco norvegese i suoi ferrivecchi da contadino, entra nel pollaio e versa nella grande ciotola un minestrone di pane avanzato, bucce miste e foglie di cavolo o insalata. Poi si affaccia al nido prende le uova.
Le galline vanno trattate bene:  devono avere la loro zuppa tutti i giorni, calda in inverno; devono dormire sulla paglia pulita e asciutta e, soprattutto, ascoltare un po’ di chiacchiere in compagnia, come ogni creatura che si rispetti. Questo pensa la signora Cesira; in fondo sono le sue migliori amiche. E quest’anno Brunetta compirà diciotto anni; è un po’ spennacchiata, come lei dopotutto.
Vicino alla sua casetta, c’è un allevamento intensivo. Gli odori che escono da quelle stalle non piacciono alla donna; quei mangimi, quelle deiezioni sintetiche le ricordano la sua unica visita all’ospedale, quella volta che suo nipotino, che stava diventando davvero bravo a piantare i chiodi, le aveva schiacciato il pollice con il martello. Preferisce che i campi, le stalle abbiano quel buon profumo di letame vero.
Ogni tanto, più o meno due volte all’anno, il signor Rossi (anche questo è un nome di fantasia, benché molto poca) finge di passare davanti al suo cancello per puro caso e, dopo tre o quattro stupidi convenevoli, ci riprova e le chiede di comprare la sua cascina.
- Pensi come starebbe comoda in una stanza riscaldata, con cuochi che cucinano per lei e nessun animale da accudire. –
Lei sorride e finge una speranza che non sente: - Eh, chissà se riuscirò mai – commenta guardando lontano.
- Se vuole, le compro tutto io, anche le galline, tanto sono vecchie. – Le osserva con fare sapiente – avranno almeno cinque o sei anni – conclude.
La signora Cesira fa una faccia strana, alza le sopracciglia e le spalle contemporaneamente e sospira. Allora il signor Rossi gira i tacchi e torna dalle sue bestie puzzolenti, biascicando un “Buongiorno” a metà bocca.
La donna lo guarda allontanarsi caracollando come un cow boy (questa parola la sa, e anche “Dvd”, quelli con i film di John Wayne che le ha regalato sua figlia) poi si alza e se ne va nel pollaio a raccontare l’ultima avventura del signor Rossi alle sue galline.


giovedì 28 giugno 2012

Eowyn Ivey, La bambina di neve, Einaudi

Pubblicato su Corriere della sera, La Lettura, 12 febbraio 2012

Quanto può influire il desiderio di maternità sulla vita di una donna? Come può essere stravolto il destino di una coppia felice dalla mancanza di un figlio? Molto, indubbiamente, ma forse ancor di più se la coppia in questione non è più giovane e vive all'inizio del secolo scorso. Mabel è una donna benestante, con una solida cultura; Jack proviene da una famiglia di contadini, ma la loro è un'unione ben riuscita, al di là della previsioni familiari. Eppure l'assenza di figli li espone al mondo come marchiati dalla vergogna, rendendo insopportabili le riunioni di famiglia e gli incontri con le coppie appagate degli amici. Finalmente Mabel porta avanti una gravidanza, tra i timori e le aspettative, ma il figlio nasce morto. La spaccatura è incolmabile nel suo cuore e i due decidono di lasciare il mondo civile, per nascondersi nelle fredde e inospitali terra d'Alaska. Mabel, dapprima distrutta, pian piano si risolleva e una sera d'autunno, con la prima neve, ritrova la complicità con il marito e costruisce con lui un pupazzo. E' solo l'inizio di un romanzo coinvolgente e impeccabile, che sposta il baricentro del lettore mostrandogli i lati spesso oscuri della psiche umana, e riducendo all'osso, grazie all'atmosfera scabra e genuina delle foreste dell'Alaska, i sentimenti. L'amore e l'amicizia diventano i veri protagonisti di questo libro, nonché gli unici motori dell'esistenza.

martedì 26 giugno 2012

Enrico Camanni, Il ragazzo che era in lui, Vivalda


Per la terza volta Enrico Camanni ci fa condurre sulle montagne da Nanni Settembrini, torinese trapiantato come guida a Courmayeur, capo della stazione di Soccorso Alpino della stessa città, conoscitore delle cime e delle loro storie.
In un luglio tiepido, in cui l’estate sembra indecisa se arrivare o meno, Nanni parte per le Dolomiti; la scusa accompagnare tre fedelissimi clienti di Ivrea, il motivo reale una delle sue tante fughe, quelle che la ex-moglie Clara non tollerava, quelle che Camilla ha imparato a rispettare.
La montagna è affascinante, il rifugio accoglie e incoraggia: con i quattro della comitiva, cenano due ragazzi, Luca e Marco, due giovani che abbiamo incontrato all’inizio del romanzo, in un parallelo tra il giovane Nanni, contestatore sessantottino, e gli universitari in rivolta per i tagli della riforma scolastica.
Nanni vede nei due ragazzi la sua stessa determinazione degli anni giovanili: una caparbietà mista all’energia sfrenata; li sente vicini, li ammira. Per questo, quando il giorno dopo la sua comitiva viene sorpresa da un violento temporale estivo sulla via ferrata degli Alleghesi, sul crostone della Civetta, non può non preoccuparsi per i due arrampicatori, in pericolo sul diedro Phillip: quaranta tiri di corda per arrampicatori esperti e “cattivi”.
Ma la salita non è solo avventura, esercizio fisico e tecnica, è anche un modo di affrontare la vita; Settembrini, pensando ai due ragazzi, pensando a sé stesso ragazzo,  capisce senza rimpianti che non c’è niente che possa riportare un adulto alla “verginità dell’esperienza”, al ragazzo che era in lui.

Cerca nel blog