mercoledì 2 dicembre 2015

I panni degli altri

Tutti noi in questo periodo ci chiediamo quale odio possa essere così forte da spingere a perdere la propria vita pur di uccidere altre persone, sconosciute, inermi.
Nessun credo politico, nessuna corrente filosofica aveva mai osato spingersi così avanti. Quindi la domanda, che in un modo o nell’altro, ci si deve porre è: quali sono le motivazioni che possono portare a tanto?
Povertà, ignoranza, il sentirsi diversi, giudicati a priori sono sentimenti negativi che conducono facilmente alla fragilità, alla possibilità di essere imboniti da chi sfrutta queste debolezze a proprio vantaggio (vantaggio economico, non dimentichiamolo mai).
Ma non è questo che voglio fare adesso, non voglio tentare un esame, terribilmente complesso e temo fuori dalla mia portata; quello che voglio qui sottolineare è che la condanna fine a se stessa, il giudizio univoco che non ammette repliche non porterà ad alcuna soluzione.
Certamente sono assassini, senza dubbio, ma anche un assassino ha sempre una motivazione, fosse anche la follia. Questa motivazione va cercata, indagata, e con tutte le nostre forze combattuta, in quella che è l’unica possibile guerra, quella contro l’infelicità.

Sono stata educata nei valori della fede cristiana, con molte contaminazioni, talvolta piuttosto creative. Non ero ancora nata ai tempi in cui il Concilio Vaticano II portava una ventata di freschezza nei riti e nei dogmi cattolici, ma i miei genitori ne parlavano spesso e, seppur con le dovute confusioni di una mente infantile, ho cominciato ad intuire la portata di un simile cambiamento.
La mia famiglia, tradizionalista come tutte le famiglie borghesi dell’epoca, mi ha insegnato un concetto che mi ha aiutato immensamente allora e continua a farlo: l’apertura mentale.
Non è tolleranza (che parola infida e subdola: finge bontà ma contiene superbia, la convinzione di essere migliori), non è superficialità, che mette tutto sullo stesso piano; è la possibilità di cambiare idea, di ascoltare un parere contrario, di ammettere di aver sbagliato. Una delle più interessanti “lezioni” di catechismo familiare fu Mistero buffo di Dario Fo, e il suo ritratto spietato e ridicolo della chiesa di BonifacioVIII.
Erano gli anni in cui si era rossi o democristiani, fascisti o socialisti, e noi leggevamo Guareschi e capivamo che lo spartiacque è fasullo, che le classificazioni servono soltanto a chi vuole strumentalizzarle a proprio vantaggio. Peppone è ignorante e bolscevico, ma buono e generoso, Don Camillo si infuria e mena le mani, ma corre ad aiutare chi ha bisogno; buoni e cattivi sono soltanto etichette.
Così la regola era ed è “non giudicare prima di aver sentito tutte le campane”.
Non che mi sia facile riuscirci, sia ben chiaro, la voglia di esprimere giudizi è forte, il desiderio di sputare sentenze, regalare perle di saggezza è un istinto talvolta ribelle.
La sensazione di avere Ragione, quella assoluta, con la R maiuscola, è sempre in agguato e occorre una grande capacità per resistervi. Ma l’importante è rendersi conto, magari non subito (siamo umani, no?), magari dopo qualche bella discussione improduttiva, dai toni sempre più alti, di aver sbagliato.
Nessuno possiede la Verità, ma soltanto una misera, parziale opinione. Per questo credo che, se c’è una soluzione, può trovarsi soltanto nel provare a mettersi nei panni degli altri. 

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