Tutti
noi in questo periodo ci chiediamo quale odio possa essere così forte da
spingere a perdere la propria vita pur di uccidere altre persone, sconosciute,
inermi.
Nessun
credo politico, nessuna corrente filosofica aveva mai osato spingersi così avanti.
Quindi la domanda, che in un modo o nell’altro, ci si deve porre è: quali sono
le motivazioni che possono portare a tanto?
Povertà,
ignoranza, il sentirsi diversi, giudicati a priori sono sentimenti negativi che
conducono facilmente alla fragilità, alla possibilità di essere imboniti da chi
sfrutta queste debolezze a proprio vantaggio (vantaggio economico, non
dimentichiamolo mai).
Ma
non è questo che voglio fare adesso, non voglio tentare un esame, terribilmente
complesso e temo fuori dalla mia portata; quello che voglio qui sottolineare è
che la condanna fine a se stessa, il giudizio univoco che non ammette repliche
non porterà ad alcuna soluzione.
Certamente
sono assassini, senza dubbio, ma anche un assassino ha sempre una motivazione,
fosse anche la follia. Questa motivazione va cercata, indagata, e con tutte le
nostre forze combattuta, in quella che è l’unica possibile guerra, quella contro
l’infelicità.
Sono
stata educata nei valori della fede cristiana, con molte contaminazioni,
talvolta piuttosto creative. Non ero ancora nata ai tempi in cui il Concilio
Vaticano II portava una ventata di freschezza nei riti e nei dogmi cattolici,
ma i miei genitori ne parlavano spesso e, seppur con le dovute confusioni di
una mente infantile, ho cominciato ad intuire la portata di un simile
cambiamento.
La
mia famiglia, tradizionalista come tutte le famiglie borghesi dell’epoca, mi ha
insegnato un concetto che mi ha aiutato immensamente allora e continua a farlo:
l’apertura mentale.
Non
è tolleranza (che parola infida e subdola: finge bontà ma contiene superbia, la
convinzione di essere migliori), non è superficialità, che mette tutto sullo
stesso piano; è la possibilità di cambiare idea, di ascoltare un parere
contrario, di ammettere di aver sbagliato. Una delle più interessanti “lezioni”
di catechismo familiare fu Mistero buffo di Dario Fo, e il suo ritratto spietato e ridicolo della chiesa di BonifacioVIII.
Erano
gli anni in cui si era rossi o democristiani, fascisti o socialisti, e noi
leggevamo Guareschi e capivamo che lo spartiacque è fasullo, che le
classificazioni servono soltanto a chi vuole strumentalizzarle a proprio
vantaggio. Peppone è ignorante e bolscevico, ma buono e generoso, Don Camillo
si infuria e mena le mani, ma corre ad aiutare chi ha bisogno; buoni e cattivi
sono soltanto etichette.
Così
la regola era ed è “non giudicare prima di aver sentito tutte le campane”.
Non
che mi sia facile riuscirci, sia ben chiaro, la voglia di esprimere giudizi è
forte, il desiderio di sputare sentenze, regalare perle di saggezza è un
istinto talvolta ribelle.
La
sensazione di avere Ragione, quella assoluta, con la R maiuscola, è sempre in
agguato e occorre una grande capacità per resistervi. Ma l’importante è
rendersi conto, magari non subito (siamo umani, no?), magari dopo qualche bella
discussione improduttiva, dai toni sempre più alti, di aver sbagliato.
Nessuno
possiede la Verità, ma soltanto una misera, parziale opinione. Per questo credo
che, se c’è una soluzione, può trovarsi soltanto nel provare a mettersi nei
panni degli altri.
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