sabato 25 maggio 2013

Salone del Libro di Torino 2013


Gli italiani leggono poco, lo dicono tutte le statistiche. Leggono poco rispetto agli altri europei, rispetto al resto del mondo occidentale, rispetto al resto del mondo tout court.
Ma si avrebbe lo stesso risultato se, in questa statistica, si sostituisse “italiani” con “piemontesi”? Diceva Bruna Bertolo nello scorso numero di questa rivista che, nonostante la crisi, il settore editoriale mostra una ragguardevole vivacità, soprattutto, aggiungerei io, in Piemonte. Nuove case editrici stanno nascendo, nuovi scrittori pubblicano le loro opere e il libro, in qualunque forma lo si legga, continua ad avere una notevole diffusione.
Il Salone del Libro di Torino ne è una dimostrazione inconfutabile. Giunto ormai alla ventiseiesima edizione, può ben dire di aver attraversato, nel corso della sua lunga vita, le diverse fasi che il mercato librario ha visto negli ultimi anni. Dagli inizi sfolgoranti del 1988, quando noi primi visitatori restammo abbagliati dalla quantità fiabesca di libri esposti, ai periodi più difficili, quando diverse fonti, culturali e politiche, spingevano per la dislocazione a Milano.
In questi ventisei anni è stato oggetto di critiche ripetute: il biglietto troppo caro, gli stand giganteschi dei grandi editori che relegano le piccole case editrici in angoli di scarso passaggio, ha saputo comunque reinventarsi ogni anno. Una nuova iniziativa, un ampliamento, una propaggine hanno esteso il Salone verso nuovi orizzonti: il tema conduttore, il paese ospite, il collegamento con il mondo del cinema, i bambini e i ragazzi come protagonisti, i paesi extraeuropei e la loro letteratura sconosciuta alle masse… Tutto fa pensare che il Salone sia perfettamente in grado di badare a se stesso e di reinventarsi con il mutare delle condizioni, che sappia ascoltare il vento e piegarsi in base alle trasformazioni dell’editoria. Certo le difficoltà ci sono e sarebbe ingenuo ignorarle; fingere che la crisi non tocchi la cultura, che, anzi, non la stia devastando, sarebbe mettere la testa sotto la sabbia. Ma è proprio quando le forze esterne sono contrarie alla lettura che questa diviene un bene prezioso, una fonte di sopravvivenza. Lo aveva intuito Ray Bradbury nel suo capolavoro “Fahrenheit 451”, lo ha raccontato Dai Sijie in “Balzac e la piccola sarta cinese”, tanto per fare due soli esempi: il libro più lo si imprigiona, più sguscia fuori dalle sbarre.

Marco Revelli, Alessandro Perissinotto e Davide Ferrario al Salone
Per questo il tema dell’edizione 2013 è Dove osano le idee, un titolo evocativo e volutamente enigmatico: del resto, cosa è più coraggioso di un’idea che passa di pagina in pagina, di occhi in occhi e, finalmente, vive di vita propria? Eccolo, il libro come nido di idee, come fucina di creatività; e la creatività come ricchezza. Questo è il messaggio del salone, che potrebbe ribaltare la statistica: gli italiani sono l’eccellenza della creatività, anche letteraria; e i piemontesi sono i primi dell’elenco, basta osservare i nomi degli autori nelle classifiche di vendita. Gli scrittori piemontesi sono tanti, e i loro nomi compaiono regolarmente nelle rubriche letterarie dei quotidiani nazionali, nei palinsesti degli incontri culturali, facendo della letteratura piemontese il fiore all'occhiello dell'editoria italiana.
 
 
Pubblicato su In... libreria, Edizioni Susalibri, maggio 2013

 

martedì 21 maggio 2013

Pensieri e semafori

Sono qui ferma al semaforo, l’unico del mio paese, e mentre sto ferma penso che dovrei chiamarlo “città”, da quando il numero degli abitanti è salito tanto da far passare di grado queste nostre case, questi nostri prati, boschi, scuole, palestre, bar, pettinatrici, negozi di intimo. Ma poi penso che in realtà è un paese, con una grande piazza dove posso incontrare i miei compagni delle elementari, medie e superiori; una grande chiesa dove ho fatto la Prima Comunione, la Cresima, dove mi sono sposata, ho salutato mia madre con un ultimo “arrivederci”, ho battezzato i miei figli.
Penso che il mio bancomat da solo non può creare i soldi che in realtà dovrebbe solo rappresentare come tramite; penso che anche se siamo nel terzo millennio il lavoro è sempre e ancora un’incognita che dipende da  mille fattori, tra cui, o forse primo tra tutti, il tempo meteorologico; penso che la mia giornata lavorativa è di sedici ore, ma che dividendo quanto guadagno per il numero di ore ottengo una cifra tendente allo zero e quindi è meglio che non lo faccia; penso che, nonostante io sia ferma a questo unico semaforo ormai da un tempo soggettivo di un quarto d’ora, davanti a me non sta passando nessuna auto. E a quel punto, decidendo che forse è il momento in cui l’automobilista italiano deve cominciare ad irritarsi e, magari, ad imprecare, tanto è solo nel suo guscio di metallo e plastica, a quel punto, dicevo, alzo gli occhi su una delle cinque strade dell’incrocio. E vedo. Vedo uno scooter lucidissimo, forse di ultima generazione, che mi passa sotto il naso con una lentezza accentuata dalla mia riflessione, che blocca il tempo in una serie di fotogrammi nitidi. Sulla sella non c’è una teenager nerovestita, ma un ultrasessantenne, dal peso approssimativo di centoventi chili. Indossa una camicia che un tempo poteva esser fucsia, prima di una innumerevole serie di lavaggi ed esposizioni al sole; i pantaloni informi non hanno un colore identificabile se non con una scarsa approssimazione al grigio.
Ma quel che più mi colpisce è il casco: un meraviglioso elmetto omologato grigio antracite opaco, così di classe da poter essere indossato al braccio ad un vernissage con Sgarbi. E sull’elmetto fanno bella mostra di sé, piazzate sui lati con ventose di gomma, due orecchie da orsacchiotto di peluche.
E scatta il verde.
 

Luca Iaccarino, Dire fare mangiare, Add


Che si tratti di cenare al Louis XV di Alain Ducasse, il più lussuoso ristorante del mondo, o di lanciare piatti sporchi allo sguattero della Taverna di Fra’ Fiusch a Revigliasco, o vivere per un attimo nel ventre rigonfio della città di Palermo, quello che conta è mantenere una visione a 360 gradi. Sì, perché lo scrittore di storie di cucina non solo racconta appunto storie, ma effettua una panoramica che comprende i piatti, pieni o vuoti, i cuochi, i produttori, la gente di ogni ceto sociale che si siede ai tavoli o che afferra con le mani i cibi succulenti e qualche volta ambigui, i lavapiatti o i critici la cui ombra si staglia impietosa dietro ogni stella o asterisco.
Questo è l’intento, perfettamente riuscito, di Luca Iaccarino, autore della Lonely Planet,  giornalista per Repubblica e Slow Food, e soprattutto, orgogliosamente, buongustaio. Nel suo libro Dire fare mangiare (Add editore) dipinge situazioni, personaggi al limite dell’incredibile, portate e cucine di ogni genere e razza, purché si tratti di cucine vere, non di Atelier d’artista con il vezzo delle stelline Michelin.
La cucina come lavoro, non come lusso che solo un mondo esclusivo può permettersi; il cibo come nutrimento per il corpo e lo spirito, come divertimento per l’anima, pur nelle sua peculiarità. Infatti, mentre l’alta cucina si diversifica a tal punto da perdere talvolta anche la connotazione di “cibo”, la cucina di strada rischia all’opposto di uniformarsi in kebab, pizza al taglio, hamburger e patatine fritte identici dal Cervino all’Etna, cucinati in modo analogo se non addirittura dallo stesso marchio. Luca Iaccarino, in questo caos apparente, ci fa intravvedere le differenze sostanziali, ma evidenziando il filo rosso che collega tra loro ristoranti da 280 euro (menu degustazione), prelibato cibo piemontese e cibo di strada. Questo comune denominatore è l’allegria, perché il mangiare è amicizia, festa, goduria e soddisfazione. E vita, soprattutto.  
Io, Luca e Gian Pietro
un po' offuscati dall'ottima cena
e dalle chiacchiere


Luca Iaccarino è stato con noi
alla Locanda Antichi Sapori del Mulino a Rivalta
giovedì 23 maggio
 
 

mercoledì 15 maggio 2013

Alessandro Perissinotto, Le colpe dei padri, Piemme

Le colpe dei padri è nella cinquina dei finalisti per il Premio Strega

La vita di Guido Marchisio è giunta ad una svolta, ma lui ancora non lo sa, e ci vorranno delle settimane, dei mesi, perché possa rendersene conto definitivamente.
E’ un giorno di lavoro qualunque, il 26 ottobre del 2011, quando Guido, al volante di una semplice Panda sostitutiva della sua Mercedes aziendale, attraversa un incrocio al primo lampo del semaforo verde. Un camion guidato da un autista soprappensiero sta per travolgerlo, ma in un istante, che sembra durare un infinito, riesce a frenare a un millimetro dalla sua fragile portiera di utilitaria.
Sconvolto, l’ingegner Marchisio, sentirà il bisogno di un bicchiere di cognac, un bisogno urgente, che lo porterà nel primo bar sulla sua strada.
E lì il protagonista del romanzo, il direttore di stabilimento della Moosbrugger, rampante quarantaseienne, sulla via per divenire un uomo dell’ombra come il suo superiore, riceverà un pugno metaforico: un giocatore di videopoker, tanto lontano dal mondo luccicante di Guido da metterlo in imbarazzo col solo rivolgergli la parola, sembra riconoscerlo, anzi, è addirittura commosso nel rivederlo.
Uno scambio di persona, un equivoco, certamente, ma il dubbio comincia ad insinuarsi nella mente del dirigente. E mentre la sua carriera percorre il cammino arduo ma pieno di soddisfazioni della Ristrutturazione Aziendale, mentre la sua vita sentimentale sfolgora a fianco della splendida stagista per la quale ha lasciato la moglie coetanea, la sua sicurezza di manager comincia a creparsi, come la carlinga di una aereo che poi, nel punto più fragile e nel momento più tragico, si spezzerà. 

Con Le colpe dei padri Perissinotto raggiunge un livello altissimo di qualità narrativa, più alto ancora dei suoi già ottimi romanzi precedenti. La sua scrittura impeccabile segue la trama con scioltezza, avvicinandoci al protagonista con lo sguardo distaccato di un narratore interno, che per il lettore non è altri che Perissinotto stesso (l’autore implicito del romanzo), uno sguardo che si rivela sempre più coinvolto.
I personaggi possono sembrare surreali, ma il loro carattere rimanda a figure che abbiamo conosciuto, incontrato o semplicemente visto in televisione, tanto da portarci a leggere tra le righe un concreto messaggio di denuncia.
La storia della Torino degli anni di piombo si avvicina pericolosamente a quella attuale dei licenziamenti e della cassa integrazione; la società di adesso, spartita in due categorie ben distinte in base al censo, non è che lo specchio, uno specchio ingrandente, di quella degli anni settanta. Con i quartieri e le case popolari, con gli immigrati dal meridione d’Italia (e non del mondo), con gli istituti tecnici e le università come due mondi separati, la Torino delle Brigate Rosse spaventa il lettore di oggi per la sua attualità.

Candidato al Premio Strega 2013, Le colpe dei padri ha il ritmo del romanzo giallo, la profondità del romanzo a sfondo sociale e la progressione incalzante del romanzo di formazione, senza subire le limitazioni di nessuno dei tre. 

 
L'intervista di Maria Giulia Castagnone, editor Piemme:

venerdì 10 maggio 2013

Virginia Treevery, Mio figlio: dislessico, Edizioni Il Melograno

“Dislessia” è una di quelle parole che, da sconosciuta e incomprensibile, in pochi anni è divenuta di uso comune. Certo, prima di entrare in modo corretto nel vocabolario degli italiani, ha attraversato, e sta ancora attraversando, fasi incerte, momenti di disorientamento.
Ad aiutarci a comprendere il vero significato di questa parola sono la logopedista Federica Mantovan e la scrittrice Laura Trivero, che venerdì 19 aprile, ospiti della libreria Isola del Libro di Giaveno, hanno tracciato due punti di vista fondamentali per comprendere questo tipo di disagio.
“Innanzitutto bisogna chiarire che il dislessico ha una intelligenza normale – spiega la dottoressa Mantovan, – e che la maggior parte dei disagi che attraversa nel suo percorso scolastico è dovuta alla diffidenza e all’incompetenza di chi non conosce questa difficoltà. Le connessioni cerebrali di ciascun individuo hanno delle imperfezioni, che si rivelano a livelli differenti: in campo musicale, matematico o linguistico, e in mille sfaccettature. Ecco, nel dislessico non funzionano le connessioni adibite alla lettura.”
I campanelli d’allarme a cui prestare ascolto sono diversi a seconda dell’età, e vanno individuati il più in fretta possibile, per una diagnosi completa ed efficace.
“Innanzitutto è necessario escludere deficit cognitivi, emozioni negative che coinvolgono il bambino, problemi sensoriali di vista e udito e problemi neurologici. A quel punto, una serie di test chiarisce senza ombra di dubbio le difficoltà dovute alla dislessia.”
Sulla lavagna bianca la dottoressa scrive quattro semplici lettere: p, q, b, d. Traccia i segni, grafemi, in modo che risultino speculari l’uno con l’altro, e, in quel momento, ci rendiamo conto che si tratta di un unico segno, solamente orientato in modo diverso.
“Se le connessioni cerebrali del riconoscimento non funzionano correttamente, diventa faticoso distinguere queste quattro semplici consonanti tra loro. Immaginate dunque che lavoro sia necessario per un dislessico, magari anche disortografico e disgrafico, copiare alla lavagna una semplice frase – afferma la giovane logopedista nel silenzio e nello stupore generale. - E quando, con grande fatica, è arrivato a metà, l’insegnante cancella la lavagna.”
Laura Trivero, alias Virginia Treevery, ha raccontato la sua esperienza nel libro Mio figlio: dislessico, edito da Il Melograno.
“La nostra difficoltà più grande è stata la non collaborazione da parte delle prime maestre di mio figlio: spesso viene considerata una perdita di tempo l’uso del computer e degli altri strumenti consigliati dalla logopedista. Per fortuna, dopo aver cambiato scuola, abbiamo incontrato due insegnanti meravigliose  – spiega ai presenti, tra cui diverse mamme con figli dislessici e alcuni insegnanti. – Quando mi sono accorta che mio figlio aveva dei problemi di apprendimento sono sprofondata nello sconforto; scoprire poi che il suo problema era la dislessia, cioè un disagio piuttosto comune (il 5% della popolazione italiana ne è colpito) è stato un sollievo. Non eravamo più soli e c’erano degli strumenti per aiutarci.”
E’ importante che il disagio venga riconosciuto da un logopedista, da un optometrista per il movimento oculare, da uno psicologo e da un neuro-psicomotricista. Purtroppo questo genere di visite sono ancora solo private e a spese del paziente, ma a quel punto ci si rivolge all’Asl locale per avere la visita neuropsichiatrica e quindi la certificazione da portare a scuola.
“Gli insegnati devono considerare questo certificato e applicare tutti  gli accorgimenti necessari per aiutare il dislessico – chiarisce Anna Prina, una insegnate dell’Istituto Galilei di Avigliana, dal pubblico. – Spesso, cercando strade alternative per insegnare ad un allievo con questo problema, ho trovato metodi utili a tutta la classe, in un percorso che ha unito molto i ragazzi.”
E’ fondamentale l’opera degli insegnanti per non emarginare il ragazzo dislessico; come dimostra chiaramente la dott. Mantovan: “Ognuno di noi ha delle particolarità che lo rendono diverso dagli altri, ed è questa la ricchezza di una classe, di una pluralità. Il bello è essere diversi, approfittare delle difficoltà per collaborare l’uno con l’altro.”
Il libro di “Virginia” è un punto d’inizio: sapere che altri, prima di noi, hanno dovuto seguire un percorso e che questo percorso ha un lieto fine.

 

 

 

 

sabato 4 maggio 2013

Giuseppe Culicchia, Venere in metrò, Mondadori

Sabrina Cassia legge un brano del romanzo
Gaia ha appena ricevuto un sms dalla Eventi Avanti, la ditta per cui lavora, con il quale l’hanno serenamente licenziata. La cosa non sarebbe di per sé irrisolvibile, se non fosse che poco prima lei stessa ha inviato per sbaglio al marito un altro sms, destinato al suo amante, nel quale lodava la capacità di amatore dimostrata durante il loro incontro notturno. Così Gaia, trentottenne fashion-victim della Milano bene, si ritrova senza marito e senza lavoro in pochi istanti. Decide quindi di accompagnare personalmente sua figlia Elettra alla lezione di giocoleria circense, al posto della tata Conchita, ovviamente in ritardo, dopo essere andata a prenderla per sbaglio alla lezione di mimo e dopo aver scoperto che sua figlia aveva da poco cominciato le lezioni di rafting. Sta smessaggiando a raffica con le sue amiche Solaria e Ilaria, quando l’istruttore di Elettra le siede accanto e comincia a chiacchierare con lei, scambiandola per la tata.

“L’idea del libro è partita proprio da questo episodio, accaduto realmente ad una mia amica” racconta Giuseppe Culicchia al pubblico decisamente nutrito, radunato nella libreria La Casa dei Libri di Rivalta. “Aveva accompagnato il figlio ai giardini e un papà le aveva chiesto se era la nuova tata. Lei aveva risposto di no, che era la mamma, e il papà, stranito, le aveva detto: - Non sapevo che avesse una mamma! - Ecco, io mi sono chiesto come ci si può sentire con una risposta del genere e da lì è nata Gaia”.
Gaia vive a Milano, ed è un insieme di tutti i cliché possibili della donna in carriera. Segue parossisticamente la moda, frequenta i locali più fashion, commenta con le amiche le notizie gossip e spende, soprattutto spende a piene mani in modo compulsivo. Ma sin dalla prima pagina cominciano ad aprirsi delle crepe nella sua vita; le prime due sono i due sms di cui sopra, la terza crepa è la figlia Elettra.
“La ragazzina non sa di avere dei genitori, perché loro hanno fatto di tutto per sbarazzarsene, con corsi di teatro, rafting, tate e scuola steineriana. E’ il tipo di vita privilegiato di chi vive in Milano centro. La città rispetto a Torino ha una struttura diversa: il centro di Torino è ancora molto popolato, ci sono palazzi abitati anche da un miscuglio di ceti sociali. A Milano il centro è occupato da uffici, banche, assicurazioni, show-room”.
Culicchia ha sempre scritto di Torino, usandola come location  dei suoi romanzi, come fulcro dei suoi saggi, addirittura come casa, nel libro Torino è casa mia, (Laterza). Questa volta Milano era il posto giusto:
“E’ il primo libro in cui la voce narrante è quella di una donna e di un tipo di donna che doveva abitare a Milano. Io, come tutti i torinesi abituati a vivere nella squadrata Torino, mi perdo quando vado a Milano. Per scrivere Venere in metrò avrei dovuto abitarci per un po’ di tempo, ma l’idea mi gettava nello sconforto. Per fortuna mi ha aiutato un’amica, inviandomi i nomi dei locali più in”.
Gaia, senza saperlo, sta cercando qualcosa di solido a cui aggrapparsi: il marito è un adolescente invecchiato, l’amante le sta vicino solo finché c’è il marito, la madre è una ex-modella che la tormenta con la linea e le diete.
“Siamo in un ‘Italia incerta, che si è riempita di festival di ogni genere: spiritualità, filosofia… siamo alla ricerca di risposte e speriamo che qualcuno sul palco ci sappia spiegare” conclude lo scrittore, per lasciarsi poi bersagliare dalle domande del pubblico.
Perché questo genere di romanzo?
“Ho voluto raccontare la storia di una donna che, messa in grosse difficoltà, riesce ad uscirne fuori. Se devo immaginare qualcuno che legge il mio libro (già mi stupisco che qualcuno legga i miei libri), penso ad una lettrice che si arrabbi con Gaia, una che alla fine del romanzo faccia pace con lei”.
Quando decidi che il libro è finito, che non ha più bisogno di rimaneggiamenti?
“Quando scade il contratto. Ma ancor di più, quando il confronto con l’editor, cioè colui o colei che ti conosce bene, che ti consiglia e ti critica in modo costruttivo è concluso”.

 

 

Cerca nel blog