Penso
che il mio bancomat da solo non può creare i soldi che in realtà dovrebbe solo
rappresentare come tramite; penso che anche se siamo nel terzo millennio il
lavoro è sempre e ancora un’incognita che dipende da mille fattori, tra cui, o forse primo tra
tutti, il tempo meteorologico; penso che la mia giornata lavorativa è di sedici
ore, ma che dividendo quanto guadagno per il numero di ore ottengo una cifra
tendente allo zero e quindi è meglio che non lo faccia; penso che, nonostante
io sia ferma a questo unico semaforo ormai da un tempo soggettivo di un quarto
d’ora, davanti a me non sta passando nessuna auto. E a quel punto, decidendo
che forse è il momento in cui l’automobilista italiano deve cominciare ad
irritarsi e, magari, ad imprecare, tanto è solo nel suo guscio di metallo e plastica,
a quel punto, dicevo, alzo gli occhi su una delle cinque strade dell’incrocio.
E vedo. Vedo uno scooter lucidissimo, forse di ultima generazione, che mi passa
sotto il naso con una lentezza accentuata dalla mia riflessione, che blocca il
tempo in una serie di fotogrammi nitidi. Sulla sella non c’è una teenager
nerovestita, ma un ultrasessantenne, dal peso approssimativo di centoventi
chili. Indossa una camicia che un tempo poteva esser fucsia, prima di una
innumerevole serie di lavaggi ed esposizioni al sole; i pantaloni informi non
hanno un colore identificabile se non con una scarsa approssimazione al grigio.
Ma
quel che più mi colpisce è il casco: un meraviglioso elmetto omologato grigio
antracite opaco, così di classe da poter essere indossato al braccio ad un
vernissage con Sgarbi. E sull’elmetto fanno bella mostra di sé, piazzate sui
lati con ventose di gomma, due orecchie da orsacchiotto di peluche.
E
scatta il verde.
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