martedì 21 maggio 2013

Pensieri e semafori

Sono qui ferma al semaforo, l’unico del mio paese, e mentre sto ferma penso che dovrei chiamarlo “città”, da quando il numero degli abitanti è salito tanto da far passare di grado queste nostre case, questi nostri prati, boschi, scuole, palestre, bar, pettinatrici, negozi di intimo. Ma poi penso che in realtà è un paese, con una grande piazza dove posso incontrare i miei compagni delle elementari, medie e superiori; una grande chiesa dove ho fatto la Prima Comunione, la Cresima, dove mi sono sposata, ho salutato mia madre con un ultimo “arrivederci”, ho battezzato i miei figli.
Penso che il mio bancomat da solo non può creare i soldi che in realtà dovrebbe solo rappresentare come tramite; penso che anche se siamo nel terzo millennio il lavoro è sempre e ancora un’incognita che dipende da  mille fattori, tra cui, o forse primo tra tutti, il tempo meteorologico; penso che la mia giornata lavorativa è di sedici ore, ma che dividendo quanto guadagno per il numero di ore ottengo una cifra tendente allo zero e quindi è meglio che non lo faccia; penso che, nonostante io sia ferma a questo unico semaforo ormai da un tempo soggettivo di un quarto d’ora, davanti a me non sta passando nessuna auto. E a quel punto, decidendo che forse è il momento in cui l’automobilista italiano deve cominciare ad irritarsi e, magari, ad imprecare, tanto è solo nel suo guscio di metallo e plastica, a quel punto, dicevo, alzo gli occhi su una delle cinque strade dell’incrocio. E vedo. Vedo uno scooter lucidissimo, forse di ultima generazione, che mi passa sotto il naso con una lentezza accentuata dalla mia riflessione, che blocca il tempo in una serie di fotogrammi nitidi. Sulla sella non c’è una teenager nerovestita, ma un ultrasessantenne, dal peso approssimativo di centoventi chili. Indossa una camicia che un tempo poteva esser fucsia, prima di una innumerevole serie di lavaggi ed esposizioni al sole; i pantaloni informi non hanno un colore identificabile se non con una scarsa approssimazione al grigio.
Ma quel che più mi colpisce è il casco: un meraviglioso elmetto omologato grigio antracite opaco, così di classe da poter essere indossato al braccio ad un vernissage con Sgarbi. E sull’elmetto fanno bella mostra di sé, piazzate sui lati con ventose di gomma, due orecchie da orsacchiotto di peluche.
E scatta il verde.
 

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