venerdì 10 maggio 2013

Virginia Treevery, Mio figlio: dislessico, Edizioni Il Melograno

“Dislessia” è una di quelle parole che, da sconosciuta e incomprensibile, in pochi anni è divenuta di uso comune. Certo, prima di entrare in modo corretto nel vocabolario degli italiani, ha attraversato, e sta ancora attraversando, fasi incerte, momenti di disorientamento.
Ad aiutarci a comprendere il vero significato di questa parola sono la logopedista Federica Mantovan e la scrittrice Laura Trivero, che venerdì 19 aprile, ospiti della libreria Isola del Libro di Giaveno, hanno tracciato due punti di vista fondamentali per comprendere questo tipo di disagio.
“Innanzitutto bisogna chiarire che il dislessico ha una intelligenza normale – spiega la dottoressa Mantovan, – e che la maggior parte dei disagi che attraversa nel suo percorso scolastico è dovuta alla diffidenza e all’incompetenza di chi non conosce questa difficoltà. Le connessioni cerebrali di ciascun individuo hanno delle imperfezioni, che si rivelano a livelli differenti: in campo musicale, matematico o linguistico, e in mille sfaccettature. Ecco, nel dislessico non funzionano le connessioni adibite alla lettura.”
I campanelli d’allarme a cui prestare ascolto sono diversi a seconda dell’età, e vanno individuati il più in fretta possibile, per una diagnosi completa ed efficace.
“Innanzitutto è necessario escludere deficit cognitivi, emozioni negative che coinvolgono il bambino, problemi sensoriali di vista e udito e problemi neurologici. A quel punto, una serie di test chiarisce senza ombra di dubbio le difficoltà dovute alla dislessia.”
Sulla lavagna bianca la dottoressa scrive quattro semplici lettere: p, q, b, d. Traccia i segni, grafemi, in modo che risultino speculari l’uno con l’altro, e, in quel momento, ci rendiamo conto che si tratta di un unico segno, solamente orientato in modo diverso.
“Se le connessioni cerebrali del riconoscimento non funzionano correttamente, diventa faticoso distinguere queste quattro semplici consonanti tra loro. Immaginate dunque che lavoro sia necessario per un dislessico, magari anche disortografico e disgrafico, copiare alla lavagna una semplice frase – afferma la giovane logopedista nel silenzio e nello stupore generale. - E quando, con grande fatica, è arrivato a metà, l’insegnante cancella la lavagna.”
Laura Trivero, alias Virginia Treevery, ha raccontato la sua esperienza nel libro Mio figlio: dislessico, edito da Il Melograno.
“La nostra difficoltà più grande è stata la non collaborazione da parte delle prime maestre di mio figlio: spesso viene considerata una perdita di tempo l’uso del computer e degli altri strumenti consigliati dalla logopedista. Per fortuna, dopo aver cambiato scuola, abbiamo incontrato due insegnanti meravigliose  – spiega ai presenti, tra cui diverse mamme con figli dislessici e alcuni insegnanti. – Quando mi sono accorta che mio figlio aveva dei problemi di apprendimento sono sprofondata nello sconforto; scoprire poi che il suo problema era la dislessia, cioè un disagio piuttosto comune (il 5% della popolazione italiana ne è colpito) è stato un sollievo. Non eravamo più soli e c’erano degli strumenti per aiutarci.”
E’ importante che il disagio venga riconosciuto da un logopedista, da un optometrista per il movimento oculare, da uno psicologo e da un neuro-psicomotricista. Purtroppo questo genere di visite sono ancora solo private e a spese del paziente, ma a quel punto ci si rivolge all’Asl locale per avere la visita neuropsichiatrica e quindi la certificazione da portare a scuola.
“Gli insegnati devono considerare questo certificato e applicare tutti  gli accorgimenti necessari per aiutare il dislessico – chiarisce Anna Prina, una insegnate dell’Istituto Galilei di Avigliana, dal pubblico. – Spesso, cercando strade alternative per insegnare ad un allievo con questo problema, ho trovato metodi utili a tutta la classe, in un percorso che ha unito molto i ragazzi.”
E’ fondamentale l’opera degli insegnanti per non emarginare il ragazzo dislessico; come dimostra chiaramente la dott. Mantovan: “Ognuno di noi ha delle particolarità che lo rendono diverso dagli altri, ed è questa la ricchezza di una classe, di una pluralità. Il bello è essere diversi, approfittare delle difficoltà per collaborare l’uno con l’altro.”
Il libro di “Virginia” è un punto d’inizio: sapere che altri, prima di noi, hanno dovuto seguire un percorso e che questo percorso ha un lieto fine.

 

 

 

 

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