domenica 27 settembre 2015

Pioggia

Amo ogni tipo di pioggia: quella tormentata e arrogante dei temporali d’estate, quella nebulizzata o pesante di neve della primavera, quella delicata e sottile delle prime giornate d’autunno. D’inverno la pioggia non può esistere, d’inverno nevica, punto e basta.
Nella calura estiva arriva all’improvviso l’acquazzone, annunciato da saette e rombi, come un imperatore romano sulla biga, osannato da tutti per l’illusorio benessere che porta. È un inganno, non credeteci, subito dopo il caldo tornerà, più fastidioso e maligno di prima.
“Ha solo bagnato la polvere” si dice qui: va giusto bene per dare una pulita al marciapiede, lavoro già di per sé inutile. Per tutto il resto, è coreografia, tutta scena.
Nelle fredde giornate di primavera la pioggia è sempre presente, anche nella luce del sole. Basta una folata di vento, una nuvola passeggera, ed ecco che ci troviamo inzuppati a rabbrividire.
D’autunno, invece, le gocce si annunciano con discrezione, ospiti gradite quanto gentili. Il cielo è già grigio eppure ancora non arrivano; non si fanno attendere come una primadonna, semplicemente danno il tempo di cercare riparo, di indossare un trench, di trovare l’ombrello. Solo a quel punto, con delicatezza, cominciano a cadere. Le vedi sull’asfalto, sul parabrezza dell’auto, sulle tegole della casa di fonte prima ancora di sentirne il rumore; si respirano nell’aria camminando e arricciano i capelli ai più fortunati (non a me, io ho spaghetti crudi in testa).
In quei momenti assaporo il bello della vita.
Se sono in città, lascio la Metro o il tram e cammino con addosso un impermeabile, fingendomi una Audrey Hepburn pasciuta nella scena finale di Colazione da Tiffany; se ho tempo, mi vizio con un tè Lapsang Souchong, che sa di torba e fumo, sbirciando dalle vetrine del bar le vie di Torino scintillanti e grigie. Se sono al lavoro, i miei clienti, che arrivano arruffati e col muso lungo, scoprono il mio lato serafico e il piacere di una stufa a legna.
Ma se sono a casa, in mezzo ai boschi, allora mi gusto completamente la pioggia, perché è alla domenica che la pioggia dà il meglio di sé. Qualche volta sento il morbido tic-tac delle gocce ancor prima della sveglia, allora corro alla finestra e sotto di me vedo solo nuvole. Mi sento come Jack, quello del fagiolo, sospeso su una terra che si appoggia su una nube, solo che io non devo cercare arpe magiche o cacciare giganti. Una bella fortuna.
Accendo il fuoco nella stufa e preparo toast alla francese; le cagnoline si accucciano al caldo e aspettano sonnecchiando che arrivi la colazione per tutti. Spalmiamo marmellata sbirciando dalla finestra e, con i ritmi sincopati di una famiglia domenicale, ci ritroviamo più o meno pronti e disposti ad uscire.
Sì, perché quando piove, d’autunno, si esce; soprattutto in montagna, e si prende la pioggia con tutti sensi.
I profumi che sprigionano dal sottobosco sono rudi, virili. Torba, fumo di legna, funghi; ricordano un ottimo brandy, un nonno con una pipa in bocca; anche le cagnoline emanano un afrore di terriccio. I colori sono caldi e avvolgenti, in tutte le sfumature del marrone e del verde (molte di più delle cinquanta del grigio, e anche molto più emozionanti e coinvolgenti). I suoni sono ovattati o crocchianti, mai aspri; foglie secche, rametti spezzati dai nostri piedi, minuscoli tonfi di pioggia che le foglie hanno accumulato e adesso lasciano stancamente. Le cortecce dei giovani castagni, delle betulle e dei frassini si lasciano carezzare e ci porgono un sostegno nei punti più scivolosi di sassi umidi; i ricci ancora verdi si difendono e trattengono con tenacia le prime castagne acerbe.

Uscendo dal bosco mi accorgo che non piove più e che soltanto le foglie lasciavano cadere le ultime gocce pesanti. Le nuvole sono risalite, verso un altro villaggio di giganti, ma al loro passaggio il bosco ha capito che l’autunno è arrivato.  

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