E’ un libro
intimo questo Viaggio verticale,
l’ultimo pubblicato da Enrico Camanni, ed è il primo che lo veda, in un modo o
nell’altro, protagonista. Durante la sua lunga carriera di giornalista e
scrittore, ha seguito nei suoi innumerevoli articoli, editoriali e libri un
unico filo rosso: la montagna.
Alpinista
appassionato fin da bambino, nel 1977, a vent’anni, era già caporedattore della
Rivista della montagna e da allora
non ha mai messo da parte la penna o le scarpette, cementando un’unione
duratura e in continua evoluzione tra la scrittura e l’arrampicata.
Camanni parla al pubblico attento nella splendida cornice del Giardino delle Donne ad Avigliana. Alle spalle il banchetto della Casa dei Libri e di Trekking Sport. 17/5/14 |
In questi
trentatré brevi capitoli, che non seguono una cronologia o una logica di causa
effetto, possiamo leggervi una sorta di diario, un quaderno di riflessioni, uno
zibaldone di pensieri che in modo apparentemente casuale ci guida verso le
profondità dell’amore per l’arrampicata.
“Chi non ha
mai sentito il bisogno di scalare un albero non è mai stato bambino” dice
all’inizio di uno di questi. Il desiderio di salire, di affrontare il vuoto in
contrasto con la paura e il controllo, è uno dei temi-guida che l’autore
affronta: la paura di cadere o il terrore inconscio dell’abisso che si apre
sotto i piedi dello scalatore si uniscono in modo indissolubile all’euforia che
la stessa vertigine causa. Il distacco mentale che la parete crea in chi la
affronta trascina in una “realtà separata”, nell’incanto di entrare in un mondo
senza tempo, dove le dimensioni acquistano un valore astratto e magico. Un
incantesimo che finisce al momento stesso in cui il piede torna a contato con
il piano e le mani non servono più per camminare.
“Dopo l’ultimo
strappo toccammo il colle e finalmente ci arrampicammo sulla montagna” racconta
nel capitolo Vertigine, osservando la
salita con gli occhi di se stesso bambino. “Fu così che fiutai il fetore del
vuoto” e noi, leggendo le sue parole sentiamo la stessa paura, la stessa
impotenza contro una forza che non possiamo vincere che con la ragione.
Cosa ci spinge
dunque a salire? E’ la domanda che nel corso di tutto il libro viene posta al
lettore attraverso le imprese di mostri sacri dell’arrampicata, o dell’autore
stesso o, in un gioco letterario, da chi prima di lui ha voluto cercare una
risposta: Buzzati e la ricerca delle illusioni, Hermann Hesse e il contrasto
tra la vera vita di Boccadoro e la meditazione interiore e statica di Narciso.
Camanni gioca
con la letteratura, assorbe le immagini e i pensieri dei grandi autori che di
montagna hanno vissuto e narrato, o trasferisce i propri pensieri nei
personaggi da lui stesso creati, plasmandoli con i suoi desideri e creando
episodi che non conoscevamo ancora.
In modo
leggero e senza strappi entriamo nel mondo dei grandi scalatori del passato,
nello spirito di sacrificio ed eroismo che li guidava; li osserviamo con lo
sguardo disincantato degli arrampicatori del Nuovo Mattino, per cui scalare era
divertimento e non sfida. Ma in ognuna di queste pagine il vero protagonista è
Enrico, perché è attraverso le sue parole che anche noi lettori possiamo vivere
le età dell’arrampicata e sentirne il fascino cangiante: i rami di un albero
attirano il bambino che vuole salirvi, le altezze dei muri, degli scogli e dei
massi erratici tentano il ragazzino; il giovane vuole conoscere l’ebbrezza
della sfida e della vertigine, per scoprire, una volta raggiunta la maturità
degli anni, la grandezza degli spazi e la spiritualità dell’ascesa.
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