Siamo
nei favolosi anni Sessanta e l’Inghilterra sta per vivere la rivoluzione
culturale più calda e ottimista del secolo. La gente si ripete che il mondo sta
cambiando e, sebbene sia una delle fasi fatte più ritrite e prive di
significato, è davvero così. I giovani annusano nell’aria qualcosa di diverso e
osano pensare e progettare con un coraggio mai provato in precedenza.
Barbara
è uno di questi giovani, curiosa di esplorare nuovi orizzonti fuori dal paese
di Blackpool, fuori dal suo provincialismo e soprattutto lontano da suo padre,
soffocante e tetro (“un ciccione di quarantasette anni, vecchio prima di averne
diritto”), che però è tutta la sua famiglia, da quando la madre è scappata di
casa.
La
grande aspirazione di Barbara è far ridere la gente: vuole diventare un’attrice
comica come Lucille Ball. Per questo lascia la corona di Miss Blackpool alla
seconda classificata e corre a Londra.
Mini-appartamento
in subaffitto, posto da commessa nei grandi magazzini e provini a raffica
sembrano la strada giusta per iniziare una carriera (a parte una deviazione
verso una relazione con un ricco uomo sposato, morta prima ancora di nascere).
Poi
capita uno di quegli eventi che possono far credere ai miracoli o alla semplice
ironia della sorte: un provino di fronte agli stessi sceneggiatori, che
cominciano ad intravvedere, sopra un seno prosperoso e sotto una soffice chioma
bionda, un bel cervello da attrice.
È
l’inizio della fortunata sitcom Barbara
(e Jim), dove Barbara, che tutti credono si chiami Sophie, frizzante
ragazzotta di provincia, cerca di portare avanti il matrimonio col banale e
molto intellettuale Jim, ficcandosi in cento situazioni esilaranti.
Lungo
i venticinque capitoli del romanzo, Nick Hornby ci fa incontrare attori colmi
di sé, produttori e agenti alle prese con matrimoni complessi, giornaliste in
carriera, femmes fatales, anziani nostalgici e incompresi, per creare una trama
in cui personaggi reali e invenzioni di fantasia si uniscono senza attriti. Protagonisti
di questa vicenda sono cinque personaggi che vivono gomito a gomito per tutta
la durata del libro, creando una serie di scene che a loro volta sembrano
episodi di una situation comedy.
In
questi anni di scoramento e paura del domani, il grande romanziere ci ridona
entusiasmo per le piccole vittorie, mostrandoci un mondo che non esiste più:
quello della televisione di famiglia, in cui tutti si riunivano per vedere la
stessa trasmissione e la vivevano come una seconda realtà. Un mondo dove già si
affacciavano grandi domande sulla importanza della televisione come mezzo per
diffondere la cultura, e se fosse possibile far coincidere cultura e intrattenimento,
senza svilire il palinsesto dei programmi.
Con
Funny girl Hornby affronta, con la
consueta ironia e con apparente leggerezza, temi che meritano certamente una
riflessione: l’audience come schiavitù per i produttori, la differenza tra
cultura alta del romanzo sociale e la cultura bassa della commedia, e infine il
tema fondamentale della rivoluzione sessuale.
Nel
corso della lettura, tra dialoghi trascinanti e battute di sano umorismo,
affiora la domanda: possibile che ancora nel 1966 fosse un reato l’omosessualità
in Inghilterra? Possibile che un’attrice splendida e brava dovesse chiedersi se
fosse giusto considerarsi “un premio da offrire malvolentieri”?
La
risposta potrà causare soltanto una seconda domanda, ben più terribile:
possibile che, almeno in Italia, dopo cinquant’anni siamo ancora fermi lì?
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