Il tema della montagna resta per Enrico
Camanni il fulcro di tutta la sua produzione letteraria e giornalistica, se non
addirittura della sua vita. Questo rende esclusiva e necessaria la sua
testimonianza nell’anno in cui ricorre il nefando centenario della nostra
entrata nella Guerra Mondiale, l’unica, quando ancora non era necessario
numerarle.
Nel panorama letterario attuale (e mi
riferisco a tutta la produzione saggistica, storica e narrativa italiana), i
titoli che fanno della Grande Guerra il tema centrale sono numerosi e sono
certa che siano destinati a salire nei prossimi mesi. L’attenzione di
giornalisti, professori e scrittori è puntata verso il 24 maggio e quella traversata
del Piave allora tanto celebrata come gloriosa quanto invece portatrice di
morte e devastazione.
“Una mattanza imprevista, evitabile e
ingigantita dalle condizioni ambientali, cioè dalla montagna stessa” scrive
Enrico nella prefazione al volume, trasformando così le cime e i ghiacciai da
semplice sfondo a fattore determinante ed elemento attivo nel conflitto.
Quello che Il fuoco e il gelo rappresenta in questo sfaccettato panorama
editoriale è una voce diversa, che analizza i terribili anni ’15 – ’18
osservandoli dalle vette aguzze, dalle cenge esposte, dalle nevi che non si
fondono mai, neppure nelle brevissime estati che i soldati attendevano a più di
tremila metri di altitudine.
Il soldato non è più un semplice
combattente, deve essere ancor prima un alpinista, che scala in condizioni
estreme e mostra la sua abilità al nemico.
“Quando il rocciatore nemico saliva con
corde e chiodi una difficile parete di calcare, per prima cosa lo guardavano
arrampicare, poi lo ammiravano, infine gli sparavano addosso”.
I soldati che giungono da tutta Italia
fino al fronte sulla cresta delle dolomiti non sono solamente Alpini, ma devono
diventarlo. I militari imparano a scalare, vengono mandati a seguire corsi di
sci in Piemonte; gli Ufficiali di ogni arma devono incoraggiare i loro
sottoposti a compiere fatiche estreme e a resistere per mesi in capanne di
legno, in trincee nel ghiaccio a venti gradi sottozero. I pericoli sono i
mortai nemici, le pallottole delle mitragliatrici, che si accompagnano alle
valanghe e ai fulmini, alle frane di roccia e ai congelamenti. Per cosa? Per
“conquistare” una vetta che fino a pochi mesi prima si poteva “conquistare”
salendoci in cordata, magari con un compagno austriaco a far sicura.
Enrico ha cercato nei diari e nelle lettere
dal fronte le tracce lasciate dai soldati; non le loro imprese belliche, ma la
loro quotidianità assurda e incredibile, per poter ricostruire la loro storia,
che è anche la nostra Storia. Leggendo le loro parole deve aver provato le
stesse emozioni e paure: la meraviglia dello spettacolo della montagna e
l’angoscia di doverci restare per combattere, per difendere una cima che sarà
un puntino sulla linea del nuovo confine.
Camanni ha trasformato, grazie alla sua
prosa scattante e curata nei particolari, ogni testimone in personaggio, così
da farci leggere la Guerra come una narrazione, formata da un susseguirsi di
scene chiave. La sua voce si intreccia e si amalgama a quella dei combattenti,
lasciando talvolta il passo alla retorica, il solo sostegno che le truppe
ricevevano dai loro generali. Sono pronti a sacrificarsi per la Patria, per
Dio, per un nuovo futuro; ma nelle loro parole, sempre mitigate per non ferire
i cari a casa, si leggono lo sconforto, l’amarezza e la paura.
Sono stata diversi anni fa a visitare le
trincee del Monte Piana, ho camminato dentro quei corridoi profondi, da cui
nulla si vede se non le pareti di pietre sgretolate dal tempo. Serve un
artificio mentale per capire l’orrore di chi ha combattuto lassù. Dopo la
salita, ecco di colpo aprirsi un panorama lunare, mozzafiato: un altopiano
maestoso che, visto dal punto più basso, sembra un pascolo d’altura, ma invece
è un traforo di camminamenti, dove i soldati vivevano e partivano all’assalto.
Lassù ci si sente totalmente esposti.
“La lotta per gli altipiani è
particolarmente cruenta perché unisce i rigori della guerra di montagna allo
strazio della guerra di trincea”, scrive l’autore dedicando agli altipiani un
intero capitolo.
Sulle Tofane, invece, vince la vertigine.
Ho percorso la galleria di mina del Castelletto, osservando il panorama
spettacolare dalle feritoie, cercando di immaginare non le vie di arrampicata e
le ferrate, ma cannoni puntati. Lì i soldati potevano fingere di sentirsi al
sicuro, tentando di non pensare al nemico appena sopra di loro e all’esplosivo
che stavano piazzando.
Un mondo che rischia di sembrare epico,
grazie alla propaganda degli anni successivi, che ha trasformato i giovani
caduti in eroi, ma che deve invece insegnare ai giovani di adesso l’inutilità e
la crudeltà delle guerre.
Salendo lungo i sentieri dolomitici, sotto
le affascinanti pareti a strapiombo si incontrano lapidi, si incrociano
gallerie dove affiorano, a causa del riscaldamento globale, reperti bellici che
sembrano giocattoli arrugginiti ed erano armi o protezioni inefficaci contro le
pallottole. “Nessuno può attraversare questi reliquiari con un cuore
neutrale”scrive Enrico, “perché la guerra riguarda tutti, e tutti hanno un
nonno che non è tornato, o è stato ferito, o è tornato segnato e vuoto”.
Con Il
fuoco e il gelo Enrico Camanni ripercorre, con i soldati italiani e
austriaci, quegli anni terribili, senza pretendere di poter rispondere alla
domanda “perché?”, facendoci sperare invece che non la si debba mai più porre.
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