La
pioggia in montagna ha un sapore diverso; sa di foglie, di terra e di neve, in
qualunque stagione.
Oggi
è fredda, sembra che in ognuna di queste grosse gocce ci sia un anima gelata. Cadono
da un cielo color fumo, percuotendo le spalle della giacca impermeabile,
infilandosi nel collo, se appena ci si dimentica il colletto abbassato. Non si
può usare l’ombrello in montagna: non si
passeggia sulle strade in salita, sui sentieri fradici, con la mano alzata a
reggere un manico curvo; non si ascolta il canto delle foglie sotto una cupola
di nylon. Un cappello di panno, un berretto di lana infeltrita proteggono e
riscaldano, e lasciano le mani libere di infilarsi in tasca o di scostare
davanti al nostro viso un ramo gocciolante.
La
pioggia in montagna è vivace, discola, non resta uguale, ma saltella qua e là,
illude con brevi lampi di sole per poi tornare ridacchiando a inondare i
balconi ornati di panni stesi. E durante queste brevi tregue, lungo i pendii
erbosi, che per tanti giorni sono rimasti aridi e gialli per la sete, le nuvole
risalgono veloci, evaporano con timore, non osando alzarsi da terra, e
accarezzano la salita come fantasmi benigni.
Poi
ricomincia, non all’improvviso, ma con piccoli cenni discreti. E a quel punto la
pioggia cade e non si ferma, scivola sulle strade, forma piccole pozzanghere, e
corre nei rigagnoli, nei torrenti e trascina a valle tutto quello che la valle
non vorrebbe ricevere. Cumuli di foglie marce, tronchi abbattuti dal vento
impetuoso del giorno prima, rami, rottami abbandonati da turisti incauti; tutto
scivola nel greto dei torrenti e si blocca nei ponti, forma dighe estemporanee,
raccoglie tonnellate d’acqua che non aspettano altro che di rovesciarsi nei
fiumi sotto di loro con energia esplosiva.
Ma
arriva, dalle cime gelide e amiche, una corrente glaciale e le grosse gocce
accettano il gelo e l’anima diventa cristallo, costellazione perfetta che si
posa e non scivola.
E la pianura gioisce.
E la pianura gioisce.
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