Sono certa che,
tra le migliaia di dibattiti che ogni giorno ci vengono propinati dai media, ce
ne sia stato almeno uno su Sette spose
per sette fratelli. Una colonna sonora da Oscar (lo vinse nel ’55), ma cosa
sarebbe stata senza la possente voce di Howard Keel? Meravigliosa sceneggiatura
da musical, ma vuoi mettere le coreografie? E i ballerini? Ma che dico
ballerini, acrobati! Piroettano, volteggiano e intanto riescono anche a cantare
e spaccare legna. Sento le voci degli opinionisti farsi via via più stridule e
fastidiose, nell’accapigliarsi a botte di citazioni: il ratto delle Sabine da
Plutarco, i nomi presi in ordine alfabetico dalla Bibbia, la rissa danzata, la
valanga, il matrimonio col fucile… e la casa in pietra, direi io. Quella
splendida fasulla costruzione di montagna, con la neve in polistirolo e i fiocchi
inseriti in sovraimpressione; con i fiori a primavera, la staccionata e la
vasca dei maiali che non puzzano, almeno a giudicare dalle espressioni sognanti
della coppia che li foraggia.
Sono cresciuta in
un alloggio (non appartamento, sia chiaro) del centro del paese, con un sacco
di stanze e scale, una in fila all’altra senza corridoio. Era una meraviglia
giocare agli invisibili con i miei fratelli, ovvero cercar di percorrere tutte
le stanze, le scale, i terrazzini esterni e il minuscolo cortile senza mai
incontrarci tra noi. Non sentivo la mancanza di un prato o di un bosco,
avendone a bizzeffe a pochi minuti da casa e nelle illustrazioni dei libri di
fiabe che divoravo.
Poi vidi quel
dannato film, quella baita in robuste travi di legno, con la cucina lurida, con
tanto di gallina razzolante sul tavolo; una casa che pian piano si trasforma,
fino a diventare calda e accogliente. La putrida cucina assurge a rustica sala
da ballo e le stanze da letto si trasformano in alcove da sogno. Ecco, lì ho
cominciato a desiderare anch’io un taglialegna, magari meno farabutto di Adamo
e con un ciuffo di capelli meno raccapricciante di quello dei suoi sei
fratelli.
Ah, come avrei
voluto, nei miei altalenanti sogni di ragazzina, un uomo che maneggia l’accetta
come una piuma e che sa piantare chiodi zampettando su assi d’equilibrio a tre
metri dal suolo. E poi vuoi mettere una bella litigata sul talamo nuziale? Chi
non perdonerebbe Adamo Pontipee che, per
non mostrarsi rifiutato ai fratelli curiosi, sguscia dalla finestra e si accomoda sul ramo di un albero?
Da quella volta
ho sognato di avere una casa tra gli alberi, galline razzolanti, neve (e tanta)
in inverno e un nerboruto boscaiolo con il quale litigare. E fare pace.
Eccolo il mio
albero, finalmente: un noce alto almeno quindici metri, con i rami ancora un po’
distanti, ma ben motivati ad avvicinarsi alla finestra, almeno in vista di una
sonora, spettacolare litigata con mio marito.