Pubblicato
in Islanda nel 2012 e in Italia alla fine del 2014, Le notti di Reykjavik ci mostra un Erlendur Sveinsson ancora
giovane, facendo un salto all’indietro nel tempo, quando il poliziotto era un
semplice agente di pattuglia, con l’incarico di partecipare a ronde notturne di
controllo.
Siamo
negli anni Sessanta e Reykjavik è una città ancora molto ancorata alle
tradizioni islandesi, eppure forti contraddizioni sembrano percorrerla.
Nonostante una profonda e radicata civiltà (una coscienza sociale che noi
italiani dovremmo invidiare con tutte le nostre forze), il degrado è forte e ben
visibile. L’alcol è una piaga diffusa in ogni ceto ed attraversa
quartieri e generi senza distinzione. Le violenze familiari sono frequenti
quanto gli incidenti stradali causati da ebbrezza.
A
sottolineare la cupezza e l’imbarbarimento della società è l’ambientazione
prevalentemente notturna del romanzo; una notte estiva, dunque brevissima, che
vede un’alba rapida sopraggiungere ben prima del suono delle sveglie. Ma in
quelle scarse ore di buio emerge il lato più sinistro della popolazione, il più
desolato. È la solitudine, forse, l’unico elemento comune tra i molti personaggi,
a partire dal protagonista, fino alla vittima; solitudine non dettata dalle
condizioni di vita, piuttosto uno stato d’animo permanente.
La
vittima è un senzatetto, trovato morto in una torbiera allagata, un semplice
stagno in cui nessuna persona lucida e sana di mente avrebbe potuto annegare.
È
accaduto un anno prima, ma Erlendur non riesce a dimenticarsi di lui, di quel
barbone scorbutico che, in qualche modo, lo aveva colpito. Perché? Per quale
motivo continuano a tornargli in mente i loro incontri, sempre dovuti a ubriachezza
o a situazioni al limite della legalità? Certamente uno dei motivi è il passato
di Erlendur, che qui è ancora più vicino: il fratello scomparso da bambino,
durante una passeggiata in un bosco e mai più ritrovato. Questa scomparsa lo
perseguita ogni giorno, obbligandolo a seguire ogni caso di sparizione, portandolo a vivere
alla continua ricerca di qualcuno o di un perché.
Questo
è il motore che spinge il poliziotto ad indagare, senza l'autorizzazione dei superiori, non
avendo i gradi e neanche gli indizi per seguire l’iter regolare. Erlendur
comincia a ripercorrere le misere tracce lasciate da quell’uomo: un rifugio in
un tubo del teleriscaldamento, una stanza lurida mezza bruciata, una sorella e
un fratello che hanno preso le distanze da lui. Il passato di Hannibal emerge
pian piano, mostrando una verità fatta di dolore e solitudine ancor più
profonda, fino alla rappresentazione della scena completa e alla soluzione.
Narrato
in terza persona, il romanzo segue Erlendur passo per passo, nei centri di
accoglienza e nei sobborghi più poveri della città. L’autore scrive con una prosa
scarna e fredda, che non mostra le emozioni o i sentimenti, ma li lascia
dedurre al lettore tramite le azioni e le parole dei personaggi. Le frasi sono
dirette ed essenziali, come il protagonista, che non mostra la sua anima nelle
pochissime riflessioni, sempre legate al caso.
Scopriamo
così la giovinezza del cinquantenne divorziato, con due figli problematici, che
avevamo conosciuto negli altri libri di Indriðason e comprendiamo anche
qualcosa di più della sua personalità complessa. Del suo passato sapevamo già
ciò che era necessario, la sua vicenda personale devastante, narrata senza
enfasi dallo scrittore, lo mostrava al lettore come un’anima in cerca di
sollievo.
Il
personaggio di Elinborg, la collega solare, madre di famiglia, qui non è ancora
presente, ma molte sono le figure femminili ad accompagnarlo nell’indagine. La
sorella della vittima, la sua amica di sventura Oddny, e la fidanzata di
Erlendur, titubante nel chiedere amore ad un uomo chiuso in se stesso.
Eppure
il personaggio che emerge dalle pagine di questo bel giallo è profondamente
umano; la sua correttezza e la sua grande empatia si nascondono nei silenzi,
cui egli ricorre per difesa e per una mai confessata paura di soffrire ancora.