Traffici
illeciti. Se dico queste due parole, cosa vi viene in mente? Se siete dei
telefilm dipendenti come me, probabilmente un paio di ragazzoni di etnia
incerta che scendono da un furgone malridotto in un lurido vicolo di qualche
metropoli; oppure splendide ragazze che offrono seni dirompenti a politici con
la pappagorgia o ad amministratori delegati, sperando in un futuro di fama e
ricchezza.
Certamente
sarebbe più difficile per chiunque, tranne forse per un fulvo barista della
campagna scozzese, immaginare come protagonista di questi traffici un piccolo
ma paffuto gregge di pecore.
Siamo
nei dintorni della mia cittadina di montagna, due carissimi amici vanno, come
ogni sera, a controllare le loro pecore, recintate in un prato. Sono una coppia
serena: due lauree, un lavoro monotono che hanno deciso di lasciare,
dedicandosi, a loro rischio, ad una passione. Non sono allevatori di
professione, ma dedicano ogni minuto del loro tempo libero ad una attività che
sta lentamente diventando la predominante in famiglia. Accudiscono le loro
pecore come alcuni dovrebbero allevare i figli. Ecco perché, giunti nel prato,
vedono immediatamente che ne mancano cinque. Certo, può capitare: l’erba
scarseggia al di qua della rete, mentre è così rigogliosa, così tentatrice dall’altra
parte.Ma perché la rete è piegata verso l’interno? Nei loro lunghi anni di università hanno imparato che, nonostante l’intelligenza degli ovini sia decisamente sottovalutata, è raro che essi apprendano l’uso delle leve, e ancor più difficilmente quello delle cesoie.
Seguire
le tracce degli animali scomparsi è facile; dimostrare ai ladri che quegli
animali sono proprio i loro ancora di più, quando sono le stesse pecore a
correre incontro belando ai loro padroni.
Più
difficile ottenere giustizia: in questo la città non ha nulla da insegnare. Gli
individui corrotti o corruttibili non sempre vivono in lussuosi attici con
vista sui larghi corsi metropolitani.
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