Amo ogni tipo di pioggia:
quella tormentata e arrogante dei temporali d’estate, quella nebulizzata o
pesante di neve della primavera, quella delicata e sottile delle prime giornate
d’autunno. D’inverno la pioggia non può esistere, d’inverno nevica, punto e
basta.
Nella calura
estiva arriva all’improvviso l’acquazzone, annunciato da saette e rombi, come
un imperatore romano sulla biga, osannato da tutti per l’illusorio benessere
che porta. È un inganno, non credeteci, subito dopo il caldo tornerà, più
fastidioso e maligno di prima.
“Ha solo bagnato
la polvere” si dice qui: va giusto bene per dare una pulita al marciapiede,
lavoro già di per sé inutile. Per tutto il resto, è coreografia, tutta scena.
Nelle fredde
giornate di primavera la pioggia è sempre presente, anche nella luce del sole.
Basta una folata di vento, una nuvola passeggera, ed ecco che ci troviamo
inzuppati a rabbrividire.
D’autunno,
invece, le gocce si annunciano con discrezione, ospiti gradite quanto gentili. Il
cielo è già grigio eppure ancora non arrivano; non si fanno attendere come una
primadonna, semplicemente danno il tempo di cercare riparo, di indossare un
trench, di trovare l’ombrello. Solo a quel punto, con delicatezza, cominciano a
cadere. Le vedi sull’asfalto, sul parabrezza dell’auto, sulle tegole della casa
di fonte prima ancora di sentirne il rumore; si respirano nell’aria camminando
e arricciano i capelli ai più fortunati (non a me, io ho spaghetti crudi in
testa).
In quei momenti
assaporo il bello della vita.
Se sono in città,
lascio la Metro o il tram e cammino con addosso un impermeabile, fingendomi una
Audrey Hepburn pasciuta nella scena finale di Colazione da Tiffany; se ho tempo, mi vizio con un tè Lapsang
Souchong, che sa di torba e fumo, sbirciando dalle vetrine del bar le vie di
Torino scintillanti e grigie. Se sono al lavoro, i miei clienti, che arrivano
arruffati e col muso lungo, scoprono il mio lato serafico e il piacere di una
stufa a legna.
Ma se sono a
casa, in mezzo ai boschi, allora mi gusto completamente la pioggia, perché è
alla domenica che la pioggia dà il meglio di sé. Qualche volta sento il morbido
tic-tac delle gocce ancor prima della sveglia, allora corro alla finestra e sotto
di me vedo solo nuvole. Mi sento come Jack, quello del fagiolo, sospeso su una
terra che si appoggia su una nube, solo che io non devo cercare arpe magiche o
cacciare giganti. Una bella fortuna.
Accendo il fuoco
nella stufa e preparo toast alla francese; le cagnoline si accucciano al
caldo e aspettano sonnecchiando che arrivi la colazione per tutti. Spalmiamo
marmellata sbirciando dalla finestra e, con i ritmi sincopati di una famiglia
domenicale, ci ritroviamo più o meno pronti e disposti ad uscire.
Sì, perché quando
piove, d’autunno, si esce; soprattutto in montagna, e si prende la pioggia con
tutti sensi.
I profumi che
sprigionano dal sottobosco sono rudi, virili. Torba, fumo di legna, funghi; ricordano
un ottimo brandy, un nonno con una pipa in bocca; anche le cagnoline emanano un
afrore di terriccio. I colori sono caldi e avvolgenti, in tutte le sfumature
del marrone e del verde (molte di più delle cinquanta del grigio, e anche molto più
emozionanti e coinvolgenti). I suoni sono ovattati o crocchianti, mai aspri;
foglie secche, rametti spezzati dai nostri piedi, minuscoli tonfi di pioggia che
le foglie hanno accumulato e adesso lasciano stancamente. Le cortecce dei giovani
castagni, delle betulle e dei frassini si lasciano carezzare e ci porgono un
sostegno nei punti più scivolosi di sassi umidi; i ricci ancora verdi si
difendono e trattengono con tenacia le prime castagne acerbe.
Uscendo dal bosco
mi accorgo che non piove più e che soltanto le foglie lasciavano cadere le
ultime gocce pesanti. Le nuvole sono risalite, verso un altro villaggio di
giganti, ma al loro passaggio il bosco ha capito che l’autunno è arrivato.