lunedì 19 agosto 2013

Diana Athill, Come pagine di un libro, Rizzoli

Cosa c’è dietro un grande autore? Talento, studio, conoscenza dei classici e dei migliori scrittori contemporanei; c’è lavoro, dedizione, capacità comunicativa e grande voglia di trasmettere emozioni.
E poi? Forza di volontà, esercizio continuo e duraturo. Non basta ancora?
Sì, per avere un grande scrittore è sufficiente, ma per avere un grande romanzo no: ci vuole ancora un ottimo editor. E’ lui che accompagna lo scrittore restando nell’ombra, suggerendo e mai imponendo, consigliando in base alla sua esperienza, tagliando con crudeltà e incentivando con tenerezza.

Tutto ciò è stata Diana Athill, la cui esperienza, appunto, di fervida lettrice e attentissima editor  è stata messa a disposizione di scrittori illustri come Simone De Beauvoir, Norman Mailer, Philip Roth, Margaret Atwood, Mordecai Richler, V.S. Naipaul.
Nel 1993, a settantacinque anni, finalmente poté andare in pensione e dedicarsi alla scrittura, sempre accantonata per lavoro. Così si accorse che la sua vita era già un romanzo e si dedicò al memoir, ma con una scrittura narrativa e autoironica che, nella raccolta di lettere Come pagine di un libro, trova la sua perfetta collocazione.
Nelle pagine che dal 1981 ha inviato, con scarsa regolarità,  al suo amico poeta Edward Field, troviamo il ritratto inconsapevole di una donna decisa, che sa affrontare le magagne della vecchiaia, mantenendo la sincerità che il suo carattere le aveva donato.
Così la Athill ci fa partecipi della sua rabbia verso l’editore André Deutsch, che l’ha lasciata con una misera pensione, stemperata, man mano che gli anni passano, dalla pietà di vederlo decadere con la vecchiaia. Ci porta in viaggio con lei, alle cene e tra le mura di casa sua, sempre circondata da amici, conoscenti e dal ricordo dei suoi amanti.
Una vita dedicata alla scrittura e agli amici, come ben ci fa capire in una lettera del 2002:
“Edward carissimo, per un terribile momento ho pensato che non ci fossero più penne in  casa! […] Niente penne in borsa, né sulla scrivania, niente in cucina e neanche in camera […] sono quasi caduta in preda al panico all’idea di non avere niente con cui scrivere. Vivo proprio di parole!”
Una vita che avrebbe potuto scorrere sotto i riflettori del mondo letterario, ma che invece la Athilla ha vissuto gustandola pienamente, nella consapevolezza che la vecchiaia arriva, e che bisogna saperci ridere su: “Adesso me ne vado in giro con due denti soltanto, il che è molto più raccapricciante che averne uno solo. Quando è accaduto lo stesso a Barbara un mese fa, si è rintanata in campagna e isolata dal mondo, ma lei d’altronde è sempre stata bella, quindi immagino avverta più profondamente l’umiliazione.”
Leggere Come pagine di un libro è sedersi sul treno di fronte ad una anziana signora dallo sguardo vispo, ascoltare le sue parole dapprima con educata gentilezza,  poi, man mano che se ne comprende il fascino, restarne avvinti fino a rendersi conto che siamo arrivati alla nostra stazione e abbiamo la bocca spalancata nello stesso sorriso stupefatto da almeno un’ora.  

 

 

sabato 27 luglio 2013

Campo da calcio


Alex sedeva sulla panchina di formica verde, con le mani pizzicate sotto le gambette esili, quasi temesse di vederle muovere di loro volontà. Teneva il viso abbassato, ma lo sguardo, che pareva fisso sul pavimento, era invece puntato verso l’alto, su quel volto che amava e temeva allo stesso tempo, da cui adesso uscivano parole che non avrebbe voluto sentire.
- Lo sapevamo che sarebbe successo – diceva la voce tonante di fronte a lui, - è inutile che ce ne stiamo lì a frignare. –
Alexandru si chiedeva spesso perché dicesse “stiamo”, “corriamo”, “saltiamo” quando invece lui se ne stava lì, ben piantato su quei piedi poderosi.
- La ditta che deve curare il prato è troppo cara – spiegò con un tono più dolce l’allenatore. -  Ogni due settimane devono tagliare l’erba, raccoglierla e portarla all’eco-centro. Son cose che costano, sai. –
A chi stesse dicendo “sai” non era chiaro, ma ogni bambino seduto su quella panca appiccicosa pensava che si stesse rivolgendo proprio a lui.
Come in partita: - Dai, corri! – urlava gonfiando il collo come un rospo, con le vene gonfie e la faccia rossa che pareva scoppiare. E tutti correvano, convinti che stesse parlando ad ognuno di loro.
- E così tra tre giorni  quei palloni gonfiati dei neri-viola prenderanno il campo in gestione - concluse sputando per terra, e anche se suo padre gli diceva sempre che proprio non si deve fare, avrebbe sputato volentieri anche lui.
- Su, alzate quelle chiappette secche – stava dicendo ora, - e smettetela di fare i bambini – ma questa volta la sua voce non penetrava nei timpani come un martello e i suoi occhi si erano piegati all’ingiù, tanto che ad Alex venne voglia di piangere.
Invece si alzò, con gli altri ragazzini della squadra, e pensò che, forse, correndo ancora una volta dietro al pallone di cuoio si sarebbe sentito bene. L’ultima volta.
I ragazzini cominciarono a saltellare verso l’uscita, cercando di non vedere il loro idolo che si strofinava la faccia con quelle mani callose e gigantesche.
- Se penso che mio cognato deve pagare per portare le vacche al pascolo, mi viene una rabbia… -
Si fermò di colpo, le mani ancora aperte davanti al viso.
- Le vacche! – esclamò, e con un “cominciate con i giri del campo” corse via. 

Certo, qualche volta sul prato ci sono macchie scure che forse è meglio non calpestare, soprattutto quando piove, e ci sono dei giorni in cui devono rimanere lì in panchina, ad aspettare che le vacche escano con tutta calma dal campo e vengano riportate nella loro
stalla per la mungitura. Ma ormai sono due mesi che Alexandru viene agli allenamenti, dopo quella che pensava sarebbe stata l’ultima volta.
E qualche pomeriggio, con l’allenatore, resta anche suo cognato, un’ala formidabile della sua squadra di borgata, negli anni Ottanta.
L’unico problema sono i due giorni di chiusura durante l’estate, quando le bestie sono in “villeggiatura” in montagna. Allora, bisogna aspettare che il fieno asciughi, prima di raccoglierlo nelle rotoballe.
Ma va bene così.

 

 

 

 

sabato 13 luglio 2013

Don Luigi Ciotti: “Liberi da…”

Venerdì 12 luglio, frazione Maddalena, Giaveno

La scenografia è scarna: un semplice tavolo e un microfono al centro della chiesa, posti dove solitamente c’è l’altare. Don Gianni Rege introduce con poche parole il personaggio tanto conosciuto e temuto dalle organizzazioni malavitose di tutta Italia:
“In queste tre serate vogliamo che la nostra popolosa frazione ritrovi il gusto e il piacere di incontrarsi, per questo abbiamo voluto affrontare tre tematiche molto diverse tra loro. Venerdì scorso c’è stato il concerto del coro “Il castello”, ovvero la bellezza la musica; venerdì prossimo, 19 luglio, ci sarà una tavola rotonda sul possibile futuro per la montagna, ovvero la condivisione.
Questa sera il mio amico don Luigi ci parlerà della libertà”. 

Così il fondatore del Gruppo Abele e di Libera dà inizio ad un lungo monologo, di frasi nette, taglienti, che non lasciano dubbi su quello che il sacerdote considera il compito di ognuno di noi.
“La mafia al nord non solo esiste, non solo ci sono infiltrazioni, ma è ben gestita e ben organizzata. Notizia di oggi: in Piemonte sette arresti per ‘ndrangheta, Bardonecchia è stato il primo comune commissariato per infiltrazione mafiosa. I grandi investimenti sono i frutti che la mafia non esita a cogliere.
Ma lavoro ne è stato fatto e continueremo a farlo, sempre più intenso, sempre più accanito grazie ai giovani e alle loro energie.
Don Gianni mi ha chiesto di parlare di Libertà, e io non posso farne a meno. I giganteschi problemi dell’Italia di oggi sono tutti legati all’assenza di libertà. Non c’è libertà se non c’è lavoro, se la gente è povera, se deve ricorrere all’usura. I dati statistici riferiscono di 2.100.000 ragazzi che hanno abbandonato gli studi e che adesso sono senza lavoro; molti ricorrono ad azioni illegali, alla prostituzione. Ecco la perdita di libertà.
In Italia una famiglia con un disabile ha bisogno di strumenti in più per essere libera, così con un anziano. Ma in Italia c’è un problema di leggi, sulla sanità, sull’istruzione, sugli aiuti.
Ed ecco il nostro impegno: rendere libero chi non lo è.
Dio ha voluto la libertà per tutti, senza nessun tipo di distinzione; ma non sempre è facile per noi capire come agire. Il cristiano deve lottare per restituire la libertà alle persone, anche rispettando chi appartiene alle altre religioni. Come ha fato papa Francesco nella sua primissima conferenza stampa, di fronte a seimila giornalisti. Non ha dato la benedizione, rischiando uno scandalo, ma ha detto:
- Ognuno di voi senta quel bisogno dentro e lo esprima in silenzio per gli altri. –
Un gesto fondamentale che ha travolto ed entusiasmato. A Lampedusa ha salutato i musulmani che iniziano il Ramadan. Questa è la libertà che Dio vuole per tutti.
Si tratta però solo del primo passo da compiere, perché subito dopo viene la Responsabilità. Si parla spesso di legalità sui media, ma ovunque si assiste ad un furto di parole, che vengono svuotate del loro vero significato: la legalità di cui si parla è malleabile, adattabile alle diverse necessità di chi la nomina e la cerca. Per fare un esempio che basta per tutti: dal 1999 l’Europa chiede all’Italia la legge Anti-corruzione, ma l’Italia in quattordici anni, non è stata in grado di votarla secondo i parametri necessari. Primo fra tutti il ripristino del Falso in Bilancio.
Ecco lo svuotamento delle parole, ed ecco perché preferisco che si parli di Responsabilità e non di Legalità. Sono io che devo sentire se il mio comportamento è per il bene comune, o solo per il mio interesse personale.
Il cambiamento ha bisogno di ciascuno di noi. La malattia è la delega, è la rassegnazione, è l’indifferenza. Ma noi possiamo cominciare dai piccoli gesti; anche solo firmare una petizione, come quella che noi abbiamo portato avanti con “Riparte il futuro”.
Solo di oggi è la notizia che la riforma della norma sul voto di scambio è stata approvata; l’abbiamo fortemente voluta e la Boldrini ci ha appoggiato.

http://www.ansa.it/web/notizie/rubriche/topnews/2013/07/12/Boldrini-unita-Aula-voto-scambio_9013900.html

Carlo Maria Martini aveva parlato della “peste” della violenza, della corruzione; papa Francesco parla della corruzione come “putrefazione”. Sono entrambi gesuiti e sant’Ignazio di Lojola aveva definito il male come “puzza”, “marcio”.
Il peccato si perdona, ma la corruzione non può essere perdonata, perché è un indurre altri in errore, è un male che si esercita attraverso l’altro, un peccato sociale.
Attenzione però a non esaltare le persone che portano avanti queste lotte, a non idolatrarli senza seguirne l’esempio.
Don Puglisi ha ricevuto la beatificazione, ma io ho paura che si releghi al santino, all’immaginetta. Lui era un uomo pratico, di gesti validi. Quando è stato ucciso, nella sua scrivania è stato trovato un foglio con le quattro cose da chiedere al commissario della commissione antimafia: un ambulatorio, un asilo, un aiuto per le donne, una scuola media. Sono cose concrete e non spirituali; certo, la spiritualità resta tra gli obiettivi della chiesa, ma è necessario calarsi nel mondo, tra le persone.
La chiesa ha le sue meraviglie e le sue fragilità: in quello stesso momento c’era un sacerdote che celebrava la messa per un superlatitante. La chiesa deve capire che la mafia è l’esatto contrario delle beatitudini. 

Tutti noi siamo chiamati ad entrare nella storia. Cominciamo dalle nostre case, dai nostri paesi, Coltiviamo la Speranza, che ha il volto degli esclusi; così realizzeremo la Giustizia, l’uguaglianza dei diritti e dei doveri”. 

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