venerdì 12 dicembre 2014

Bruno Gambarotta, Ombra di giraffa, Garzanti

Dopo il funerale del loro vecchio collega Felice Chiapasso, i suoi cinque amici si trovano al bar Elena di Piazza Vittorio per qualche rievocazione e un po’ di sospiri. Tra un battibecco e un amarcord, si insinua l’amarezza: nessuno dei capi RAI è intervenuto alla funzione.
Non si può lasciar passare questo gesto, bisogna far qualcosa perché non ci si dimentichi di Ombra di giraffa e della sua bravura come tecnico.
Guarda caso proprio l’indomani ci sarà un convegno sulle nuove frontiere della fiction, con tutti i capi schierati: un’ottima occasione per ricordare a tutti i presenti che ogni impiegato ha fatto grande la RAI, anche i tecnici. Niente di scandaloso o di illegale, basteranno dei telegrammi commemorativi. Basteranno se inviati da qualcuno di importante e non certo da semplici impiegati, anche se “seniores”, magari firmati da registi RAI. Già, e se poi i registi si lamentano? Se scattasse qualche denuncia? Nessuna denuncia, se i registi sono già belli defunti.
Il trucco funziona: durante il convegno i telegrammi vengono letti a voce alta da una impiegata tanto solerte quanto ignorante da non accorgersi che i registi non lavorano più (e non respirano più) da tempo. Ombra di giraffa ha il tributo che si meritava.
Meno facile è ingannare la giornalista Alessandra Comazzi, che invece ha immediatamente scoperto il trucco e si chiede, sulle pagine della Stampa, se non si tratti di uno stratagemma per pubblicizzare l’uscita di una fiction sul mondo della RAI. Il dottor Dell’Angelo, neodirettore di RAI fiction, decide di cavalcare l’onda e di annunciare l’uscita di Ombra di giraffa, serie mai girata e che mai lo sarà; per cui organizza immediatamente una teleconferenza e si precipita, dal suo albergo, agli studi RAI di via Verdi., a bordo di un auto che è venuta inaspettatamente a prenderlo. Ma l’autista non lo accompagnerà alla sede della RAI Torino, bensì al museo di arte orientale.
Da qui la trama si snoda lungo una traccia ricca di divagazioni, in uno sviluppo che ho osato definire “a matriosca”, con racconti nel racconto, con sottotrame ed episodi collaterali che arricchiscono e divertono.
Gambarotta gioca con se stesso e con i suoi ricordi, intrufolandosi tra le pagine del romanzo, per fare l’occhiolino al lettore.

sabato 29 novembre 2014

Alessandro Perissinotto, Coordinate d'oriente, PIEMME

 “Al giorno d’oggi, anche chi si iscrive alle facoltà umanistiche ha progetti da ingegnere”.
A pensarla così è il narratore di Coordinate d’oriente, docente universitario disincantato che conosce le aspirazioni economiche e per niente artistiche dei suoi studenti; per questo tenta di avvicinarli alla letteratura conciliando racconto e marketing, biografia e imprenditorialità.
Così, quando dice ai suoi studenti: «Armatevi di registratore e andate ad intervistare qualcuno che abbia un’esperienza lavorativa interessante», sa che non deve aspettarsi nulla di straordinario: una ricerca sociale, niente più. Eppure nel profondo spera che essi diventino “portatori di storie”.
Alla fine del corso i ragazzi sfilano a depositare le loro interviste sotto i suoi occhi distratti, in quella che gli appare come un’unica massa omogenea. Invece, quando l’aula si è ormai svuotata, sulla cattedra, tra i magri elaborati, è apparso uno spesso plico di fogli, in cui si racconta la strana e coinvolgente esperienza di Pietro Fogliatti, imprenditore illuminato.
Qui comincia la caccia al tesoro che il narratore, alter ego di Perissinotto stesso, fa compiere al lettore. Tra salti temporali rapidi, flashback e spostamenti di scena, entriamo nella vita del protagonista, un uomo generoso, forse un sognatore, che con i suoi sogni avrebbe potuto essere felice.
Ma forse la GS non è solo un sogno, è un progetto: un auto elettrica, che raggiunge i 120 chilometri orari e che possiede un’autonomia mai sperimentata in precedenza. Dopo un tentativo fallito di proporla ad un’industria torinese, il progetto piace a due giovani rampanti californiani e viene creata la Nazca China.
Pietro va a Shangai, senza rimpianti per quel che lascia, forse senza nemmeno troppe aspettative, non fosse per la GS. La metropoli delle contraddizioni, con le sue tradizioni radicate e le futuristiche innovazioni tecnologiche, lo accoglie nel suo abbraccio di smog e indifferenza, riservandosi però di sorprenderlo.

Perissinotto si incarica di raccontarci la storia di Pietro Fogliatti assumendo il ruolo di narratore in prima persona, ma coinvolgendoci nell’alternanza dei punti di vista. La singolare vicenda del protagonista, raccolta come testimonianza dalla studentessa misteriosa, ci è esposta dall’autore stesso, ma le tre voci si fondono in un amalgama avvolgente e ricco.
Il nostro compito di lettore è raccogliere gli indizi sparsi sul protagonista e sui tanti personaggi che lo affiancano, ricostruendo una trama complessa, sbriciolata in episodi talvolta brevissimi, che pian piano ci accompagnano nel fulcro della narrazione: i sottili e qualche volta invisibili fenomeni sociali che lentamente ma con tenacia rischiano di cambiare il mondo.

mercoledì 19 novembre 2014

Enrico Camanni, Il fuoco e il gelo, Laterza

Il tema della montagna resta per Enrico Camanni il fulcro di tutta la sua produzione letteraria e giornalistica, se non addirittura della sua vita. Questo rende esclusiva e necessaria la sua testimonianza nell’anno in cui ricorre il nefando centenario della nostra entrata nella Guerra Mondiale, l’unica, quando ancora non era necessario numerarle.
Nel panorama letterario attuale (e mi riferisco a tutta la produzione saggistica, storica e narrativa italiana), i titoli che fanno della Grande Guerra il tema centrale sono numerosi e sono certa che siano destinati a salire nei prossimi mesi. L’attenzione di giornalisti, professori e scrittori è puntata verso il 24 maggio e quella traversata del Piave allora tanto celebrata come gloriosa quanto invece portatrice di morte e devastazione.
“Una mattanza imprevista, evitabile e ingigantita dalle condizioni ambientali, cioè dalla montagna stessa” scrive Enrico nella prefazione al volume, trasformando così le cime e i ghiacciai da semplice sfondo a fattore determinante ed elemento attivo nel conflitto.
Quello che Il fuoco e il gelo rappresenta in questo sfaccettato panorama editoriale è una voce diversa, che analizza i terribili anni ’15 – ’18 osservandoli dalle vette aguzze, dalle cenge esposte, dalle nevi che non si fondono mai, neppure nelle brevissime estati che i soldati attendevano a più di tremila metri di altitudine.
Il soldato non è più un semplice combattente, deve essere ancor prima un alpinista, che scala in condizioni estreme e mostra la sua abilità al nemico.
“Quando il rocciatore nemico saliva con corde e chiodi una difficile parete di calcare, per prima cosa lo guardavano arrampicare, poi lo ammiravano, infine gli sparavano addosso”.
I soldati che giungono da tutta Italia fino al fronte sulla cresta delle dolomiti non sono solamente Alpini, ma devono diventarlo. I militari imparano a scalare, vengono mandati a seguire corsi di sci in Piemonte; gli Ufficiali di ogni arma devono incoraggiare i loro sottoposti a compiere fatiche estreme e a resistere per mesi in capanne di legno, in trincee nel ghiaccio a venti gradi sottozero. I pericoli sono i mortai nemici, le pallottole delle mitragliatrici, che si accompagnano alle valanghe e ai fulmini, alle frane di roccia e ai congelamenti. Per cosa? Per “conquistare” una vetta che fino a pochi mesi prima si poteva “conquistare” salendoci in cordata, magari con un compagno austriaco a far sicura.
Enrico ha cercato nei diari e nelle lettere dal fronte le tracce lasciate dai soldati; non le loro imprese belliche, ma la loro quotidianità assurda e incredibile, per poter ricostruire la loro storia, che è anche la nostra Storia. Leggendo le loro parole deve aver provato le stesse emozioni e paure: la meraviglia dello spettacolo della montagna e l’angoscia di doverci restare per combattere, per difendere una cima che sarà un puntino sulla linea del nuovo confine.
Camanni ha trasformato, grazie alla sua prosa scattante e curata nei particolari, ogni testimone in personaggio, così da farci leggere la Guerra come una narrazione, formata da un susseguirsi di scene chiave. La sua voce si intreccia e si amalgama a quella dei combattenti, lasciando talvolta il passo alla retorica, il solo sostegno che le truppe ricevevano dai loro generali. Sono pronti a sacrificarsi per la Patria, per Dio, per un nuovo futuro; ma nelle loro parole, sempre mitigate per non ferire i cari a casa, si leggono lo sconforto, l’amarezza e la paura.

Sono stata diversi anni fa a visitare le trincee del Monte Piana, ho camminato dentro quei corridoi profondi, da cui nulla si vede se non le pareti di pietre sgretolate dal tempo. Serve un artificio mentale per capire l’orrore di chi ha combattuto lassù. Dopo la salita, ecco di colpo aprirsi un panorama lunare, mozzafiato: un altopiano maestoso che, visto dal punto più basso, sembra un pascolo d’altura, ma invece è un traforo di camminamenti, dove i soldati vivevano e partivano all’assalto. Lassù ci si sente totalmente esposti.
“La lotta per gli altipiani è particolarmente cruenta perché unisce i rigori della guerra di montagna allo strazio della guerra di trincea”, scrive l’autore dedicando agli altipiani un intero capitolo.
Sulle Tofane, invece, vince la vertigine. Ho percorso la galleria di mina del Castelletto, osservando il panorama spettacolare dalle feritoie, cercando di immaginare non le vie di arrampicata e le ferrate, ma cannoni puntati. Lì i soldati potevano fingere di sentirsi al sicuro, tentando di non pensare al nemico appena sopra di loro e all’esplosivo che stavano piazzando.
Un mondo che rischia di sembrare epico, grazie alla propaganda degli anni successivi, che ha trasformato i giovani caduti in eroi, ma che deve invece insegnare ai giovani di adesso l’inutilità e la crudeltà delle guerre.
Salendo lungo i sentieri dolomitici, sotto le affascinanti pareti a strapiombo si incontrano lapidi, si incrociano gallerie dove affiorano, a causa del riscaldamento globale, reperti bellici che sembrano giocattoli arrugginiti ed erano armi o protezioni inefficaci contro le pallottole. “Nessuno può attraversare questi reliquiari con un cuore neutrale”scrive Enrico, “perché la guerra riguarda tutti, e tutti hanno un nonno che non è tornato, o è stato ferito, o è tornato segnato e vuoto”.
Con Il fuoco e il gelo Enrico Camanni ripercorre, con i soldati italiani e austriaci, quegli anni terribili, senza pretendere di poter rispondere alla domanda “perché?”, facendoci sperare invece che non la si debba mai più porre. 

mercoledì 15 ottobre 2014

AA.VV., Venti di montagna, un'antologia di racconti ripidi, Echos edizioni


I dieci autori all'Ecomuseo di Coazze
Luciana Accomasso
Lina Cerrato
Elena Di Bella
Rocco Di Narbonne
Sara Goria
Anne-Mette Lund
Daniela Negro
Alesandro Piva
Sonia Rolando
Gabriella Tessa

a cura di Maria Teresa Carpegna 


In copertina grafite di
Vinicio Perugia
Non è semplice recensire un libro di racconti come Venti di montagna: le trame sono molte e diverse tra loro, gli autori, dieci in tutto, usano stili differenti e danno alla loro prosa un carattere particolare, che li distingue nettamente l’uno dall’altro. Certo, come si intuisce perfettamente dal titolo, il filo conduttore è appunto la montagna; non è facile, però, ricondurre ad un unico schema tutte le emozioni, i sentimenti, ma anche le avventure che la montagna può ispirare e che, da una semplice esperienza, possono venire trasformati in narrazione.
Ancor di più è difficile per me recensire un’antologia che ho praticamente visto nascere, nei corsi-laboratorio che ho condotto in diverse occasioni, sia nel rifugio Palazzina Sertorio, in Val Sangone, sia tra le mura della mia mansarda. 
Tutto ebbe inizio quasi un anno fa, il 30 novembre 2013, con un weekend trascorso nel rifugio, sotto un’abbondante e ovattante nevicata. Letture di grandi autori come ispirazione e guida, perché non ci si dimentichi mai che per poter scrivere bene bisogna leggere, e leggere di tutto. Poi, penna e blocco di carta alla mano, alla luce di tenui candele, sono nati i primi racconti, che ora vedono la ribalta della pubblicazione.
I generi letterari delle singole opere brevi sono ben diversi tra loro;  leggendo il libro, ci si trova di fronte a storie in cui l’impronta può essere sentimentale, oppure più riflessiva, ma anche dinamica. In molti di essi troviamo una narrazione più rapida, tipica di chi nella montagna vede lo scenario di imprese sportive, in altri lo stile, più cesellato, più descrittivo è quello delle opere psicologiche.
Dunque, come descrivere brevemente l’intera antologia?
In realtà c’è un filo conduttore che lega tutte le opere contenute, ed è rappresentato da una sensazione, creata dal silenzio, dalla solitudine, dalla bellezza talvolta incontaminata dei panorami e dei boschi. Ecco, questo è ciò che la montagna comunica inevitabilmente in chi cerca di percorrere i sentieri che si inerpicano su per le valli, sentieri sempre più stretti, sempre più ripidi.
La montagna come storia di genti e tradizioni, come superamento dei propri limiti, in una gara con se stessi; come visione della propria vita, in un parallelo con gli ostacoli che ogni giorno dobbiamo imparare a superare. La montagna si trasfigura, racconto dopo racconto, divenendo panorama meraviglioso, guscio protettivo e rifugio, natura perfetta a rischio di contaminazione umana, che talvolta sembra ribellarsi e reagire con violenza. I ghiacci, i boschi, la neve sono abitati da essere incantati e da animali magnifici, percorsi da spiriti non sempre benevoli.
Ecco gli stimoli che hanno dato l’avvio agli autori, che li hanno guidati nel dar vita a personaggi e a farli muovere lungo trame suggerite da quel che nessuno può insegnare: la fantasia.

Quarta di copertina
Tutto è cominciato con un weekend organizzato grazie alla collaborazione di Christian Ostorero, gestore della Palazzina Sertorio.
Abbiamo cercato, grazie a letture mirate, l’atmosfera che aiutasse a raccontare, che invogliasse ad entrare in quel mondo a parte che è la narrativa di montagna. È nata una collaborazione piacevole, fatta di risate, di silenzi e di letture, ma ammetto che salire sotto una forte nevicata e trovare nel rifugio quel favoloso calore rustico sia stato di grande aiuto. Alcuni racconti sono nati proprio in quella occasione, letti a voce alta dai loro stessi autori la sera, accanto al fuoco.
«Si scrive nella pace, nella tranquillità» spiega Rocco di Narbonne, «si vedono cose che altrimenti passerebbero inosservate, nella superficialità frettolosa di chi è preoccupato per altro». Il docente universitario, che scrive sotto pseudonimo, confessa di vedere la montagna come “il grembo capiente di madre natura”.
«Dovrebbe essere una fonte di vita, prima di tutto; se lo capiremo avremo qualche speranza di essere felici» precisa Elena Di Bella, torinese come Luciana Accomasso, che dei monti ama soprattutto i sentieri da percorrere. «Le idee migliori mi vengono mentre cammino; mi aiuta a srotolare i pensieri e a guardare avanti».
«L’ispirazione si “aggrappa” all’ambiente esterno, ma è già dentro di noi» dice Alessandro Piva, coazzese di adozione. «Ognuno di noi può ricevere l’impulso al racconto in un qualsiasi angolo di mondo. Anche una parola detta casualmente può fornire suggestioni, immagini molto utili».
Anche Anne-Mette Lund, danese di origine, sottolinea questo aspetto: «La montagna è per me un luogo esotico, che non fa parte della mia cultura; per questo lo considero un ambiente misterioso, perfetto per inventare storie».
Un luogo magari ostile, dove gli elementi sono ancora selvaggi e non controllabili, ma certamente dove il silenzio regna sovrano. Proprio alla quiete, al silenzio Lina Cerrato, che aveva solamente dieci anni in quei giorni, ha dedicato un racconto. È lui la presenza sottile e pregnante che trasmette energia agli scrittori.
«Mi sono avvicinata alla scrittura solo negli ultimi anni, ma adesso è diventata una costante delle mie giornate. I corsi mi hanno incoraggiata a mettere ordine al mio scrivere autobiografico, ad avvicinarmi a temi non necessariamente legati alle mie esperienze» è il commento di Gabriella Tessa.
«E a trovare il coraggio di mettersi in gioco, di far leggere i propri scritti» aggiunge Daniela Negro, insegnante come Gabriella. «Per una volta dovrò mostrare le mie opere e mettermi dalla parte dei miei studenti» sorride, ma si capisce che l’emozione è forte. Pubblicare significa rendere pubblico ed è comunque una prova emotiva non semplice da superare.
«Da anni scrivo poesie per sfogare emozioni» precisa Sonia Rolando, che ha già all’attivo delle raccolte poetiche e un romanzo, Controvento, pubblicato all’inizio dell’anno. «Il mio primo romanzo è stato una sfida con me stessa: vinta, inaspettatamente!».
«L’amore per la scrittura nasce leggendo» conclude Sara Goria, che abita in Val d’Aosta e che quindi, con le cime più alte d’Italia a pochi passi, di montagna se ne intende. A lei, autrice del romanzo Seconda classe, pubblicato la scorsa primavera, lascio il commento finale:
 «Leggere è come viaggiare senza aprire la porta di casa, ed è inevitabile che spinga a raccontare qualcosa, qualcosa che non sia stato ancora scritto, che coinvolga e che emozioni».

In questo progetto ha creduto la casa editrice Echos di Giaveno, a cui va tutto il mio ringraziamento, una piccola ma dinamica realtà editoriale della Val Sangone, con il cuore sul territorio e la mente sul mondo, che sta velocemente accrescendo le proprie competenze ed espandendo i diversi settori di attività editoriale.
Mi auguro davvero che Venti di montagna possa essere l’inizio di una nuova possibilità per la narrativa.
Presentazione alla biblioteca di Giaveno


venerdì 10 ottobre 2014

Alessandro Boidi Trotti, Una strana partita, Araba Fenice


Roberto Anelli, Primario di Oncologia all’ospedale Molinette di Torino, ama incontrare i suoi amici una volta al mese per un poker e molte chiacchiere. Le passioni della sua vita, condivise con gli amici di sempre, sono la musica e il calcio.
In una di queste partite si trova stranamente “servito” con un poker di donne in mano. La strana coincidenza lo porta a ripensare, nel corso della partita, alle sue quattro donne, coloro che hanno caratterizzato nel bene e nel male la sua vita, rendendola unica e affascinante.
La prima di cui il narratore racconta è Bianca, la Donna di Quadri, splendida e altera compagna di classe al liceo classico Vittorio Alfieri di Torino, poi magistrato dalla vita sentimentale travagliata. Il fascino che subisce Roberto è giostrato da lei come un’arma a doppio taglio e la loro storia vacilla tra l’amicizia e l’attrazione, lungo tutta la loro vita.
Con lei si incontrerà in diverse occasioni, nell'arco di quarant'anni, nei locali storici della città piemontese, facendo respirare al lettore l’atmosfera degli anni salienti della storia locale.
La Donna di Picche è quella cui Roberto ha dedicato la sfida della vita: la morte e il cancro; questo fornisce lo spunto per profonde riflessioni religiose e spirituali. Nei suoi giorni all’ospedale Molinette, il dottor Anelli la incontra negli occhi di donne ammalate, vittoriose o sconfitte, combattive o arrese nel duello con lei. Una di queste donne è una delle amiche di gioventù dello stesso dottore, Chiara; con lei e con altri amici avevano percorso l’Italia degli anni Sessanta, per una vacanza indimenticabile, in pullmino e tenda canadese.
La Donna di Cuori è Barbara, la moglie che Roberto ha scelto e ancora gli sta accanto, presenza silenziosa e forte al contempo. Il suo arrivo nella vita dell’oncologo è preannunciato da due storie d’amore, vissute durante i due conflitti mondiali.
Nel 1917 il nonno di Roberto, figlio di nobili laureati, si innamora, contro tutte le convenzioni, di una “caterinetta” di Torino e va a convivere con lei, sfidando le ire dei genitori, poco prima di partire per il fronte di Caporetto. La nascita di ben due figli maschi, unici eredi della famiglia, farà capitolare i genitori e accogliere Ester.
Nel 1943, il padre di Roberto viene imprigionato su un treno diretto in Germania, ma riesce a fuggire; ferito, riuscirà a comunicare l’indirizzo della sua amata, conosciuta grazie agli scambi epistolari dell’epoca. 
Lo stesso Roberto cercherà la sua Donna di Cuori tra le donne forti sue coetanee. L’arrivo di Barbara nella sua vita, figlia di farmacisti e farmacista a sua volta, segnerà il suo fortunato destino di uomo sposato e padre felice.
Roberto, tra un “rilancio” e un “lascio”, giunge alla sua Donna di Fiori, l’adorata figlia Valentina, proprio nel giorno del suo matrimonio. Gli attimi che precedono la cerimonia, dalla partenza da casa all'arrivo alla chiesa di S. Massimo, proprio di fronte ai giardini Cavour, saranno di stimolo per una riflessione profonda sul senso della vita. Percorrendo la navata, in mezzo a tutti quei volti amici, Roberto attraverserà con la mente le fasi della vita di sua figlia: bambina che vede nel fiume Po un amico, ragazza spigliata e curiosa e, tra poco, moglie.
La partita è giunta al clou, due i giocatori rimasti, ma una strana nebbia avvolge Roberto, che deve ora giocare la partita più importante della sua vita. 


Basato su un mix di episodi realmente accaduti e invenzioni narrative dell’autore, Una strana partita è un romanzo coinvolgente, che fa riflettere e divertire.
Alessandro Boidi Trotti
«Da alcuni anni mi frullava in mente un canovaccio, sebbene ancora confuso» spiega il dottor Boidi Trotti. «L’ultima volta che avevo scritto qualche cosa era stato per l’esame di Maturità; poi ovviamente, testi scientifici e relazioni di lavoro, ma niente di ludico. Così il 7 gennaio, ad una settimana esatta dalla pensione, ho iniziato una confusa, ma reale, “Strana partita”».
Dunque una necessità di reinventarsi?
«Non avendo particolari hobbies, mi sono chiesto cosa mi piacesse e, indirettamente, potesse essere utile ad altri, qualche cosa però che fosse davvero mio. Volevo fare il punto sulla mia esistenza, essendo giunto ad un bivio importantissimo; volevo interrompere più di quarant'anni di vita professionale, per fare un po’ di chiarezza in me e anche, lo confesso, per proporre l’”Alessandro pensiero”. Tutto, però, con ironia, soffermandomi sui miei interessi culturali, cioè il calcio, o meglio la Juve, le canzoni, in particolare quelle degli anni Sessanta, le battute di spirito, la mia Torino, la sua Storia, i suoi caffè, le carte e specialmente l’amicizia. Devo confessare che da quasi subito lo scrivere mi ha dato un senso di libertà, come di un viaggio, per me che detesto i viaggi turistici, nel tempo e nello spazio, senza barriere».
Il filo conduttore, però, sono le donne; non solo le quattro protagoniste, ma anche molti personaggi secondari sono femminili. Cosa rappresenta per lei la donna?
«Bella domanda! Come vorrebbe il mio protagonista, il dottor Roberto Anelli, mi illudo di sapere parlare con le donne, ma lascio a loro l’ardua sentenza. Dovendo rispondere direi: sono il vero mistero della vita, ma guai non fosse così. Del resto nella Bibbia si narra che,  quando Dio la creò, l’Uomo fosse addormentato quindi…»
A chi consiglierebbe il suo libro?
«Spero possa interessare tutti. I miei coetanei che ritroveranno la vita torinese degli anni Sessanta – Settanta, ma  anche i giovani, che ne hanno certamente sentito parlare. Mi auguro piacciano a tutti le capatine storiche sulla Prima e la Seconda guerra mondiale, frutto dei  racconti sentiti dai miei nonni nell’infanzia. E ovviamente ai miei amici, sebbene io tema molto il loro giudizio. Alcuni di loro sono volutamente riconoscibili, anche se ho voluto cambiarne qualche caratteristica. Spero che dopo la prima lettura, dettata dalla curiosità, riprendano il libro in mano per vederlo anche sotto altre prospettive».
Un po’ di paura, dunque, e anche curiosità per le reazioni che avranno i lettori?
«E’ difficile mettersi in gioco così. Spero che lo apprezzino tutti e si ricordino che questo non è il mio mestiere,  ma che ho profuso il massimo impegno in questo esperimento, magari anche creando eccessive aspettative. Inoltre credo in una diversa lettura tra maschi e femmine. Per chi non mi conosce, spero si lasci coinvolgere, si lasci condurre da argomenti magari non scontati; ho cercato di trasmettere il concetto che si può parlare di cose serissime anche in un romanzo, ma anche che bisogna sapere ridere e divertirsi».
Ha parlato di aspettative da parte del pubblico di lettori conosciuti. C’è qualcuno in particolare che l’ha incoraggiata, che ha letto le sue prime pagine quando ancora non si parlava di un vero e proprio libro?
«Mia moglie Francesca, la Barbara del libro, ha letto la prima stesura ed è rimasta sorpresa, anche stupita. Forse non è stato facilissimo per lei, rivedersi come personaggio. Mi ha dato suggerimenti ed esortazioni utili e incoraggianti. Anche i miei figli Federico e Elena (la Donna di Fiori), dopo la sorpresa iniziale per questa attività paterna, mi hanno spinto a continuare. Non hanno letto ancora nulla del libro, ma forse temendo una mia involuzione da pensione, hanno visto una nuova vitalità. Aggiungo anche la mia editor Maria Teresa:  una comune amica ci ha presentati; le ho chiesto di leggere la prima stesura, per dirmi se dovevo buttare tutto nel cestino o se aveva un senso quello che avevo iniziato. La risposta è nelle vostre mani. E infine due amiche misteriose:  è colpa loro se siamo arrivati qui. Ancora donne, come vede».
Sappiamo che, nonostante la promozione del libro la terrà impegnata nelle prossime settimane, è già all’opera con un nuovo romanzo. Può parlarcene?
«Sono appena agli inizi, ma sarà un’opera molto diversa, di cui non accenno ancora nulla».
Allora arrivederci al prossimo libro.

venerdì 3 ottobre 2014

Simona Baldelli, Il tempo bambino, Giunti

Una casa, un nido; muri che rassicurano e proteggono fin dagli anni dell’infanzia. Mobili sempre uguali, più vecchi anno dopo anno, e poi i quadri, le fotografie, gli specchi; ogni immagine una storia, una passato.  Quanti anni? Pochi o forse tantissimi, non è facile capire, per chi legge, sempre più velocemente, Il tempo bambino di Simona Baldelli. Quanti anni ha Mr. Giovedì? È un uomo ormai cadente, che si ingobbisce giorno dopo giorno, o forse un fanciullo incapace di invecchiare e di crescere? Lui con il tempo ci lavora: ripara orologi, sostituisce minuscoli pezzi, pulisce, lima, ridà la vita ai meccanismi. Lui vive in un tempo sospeso, dove i morti lo affiancano come quando erano vere presenze materiali; lo fanno sentire sbagliato come allora, sporco, un animale che deve vivere nascosto.
Solo Regina lo fa sentire bene; i suoi occhi dolci, la voce infantile, la sua pelle chiara di bambina lo attirano e lo incuriosiscono. Mr. Giovedì non si chiede perché Regina fosse addormentata sul suo zerbino, non si stupisce perché riceve da lei degli ordini; a quell’uomo senza tempo bastano le sue carezze, le sue parole affettuose per sentirsi di nuovo vivo, di nuovo con un futuro.


Le parole di Simona Baldelli si accordano perfettamente alla trama incalzante; accompagnano il lettore con dolcezza, prendendolo per mano verso l’orlo di un abisso.
Avanziamo pagina dopo pagina con timore, e quando ormai siamo di fronte al baratro non possiamo più non affacciarci: sperando di non vedere quel che temiamo là sul fondo, magari con le dita sugli occhi, gettiamo uno sguardo preoccupato e ansioso.
Il tempo bambino è un romanzo avvolgente e proprio per questo inquietante; la storia di Mr. Giovedì è tanto dolorosa quanto può esserlo una storia vera, la storia di un uomo cui non è stato mai permesso di crescere, di prendere in mano il proprio destino. Quell’orologiaio solitario potrebbe essere il nostro vicino di casa, potrebbe essere il lontano parente che non vediamo più da anni. Potrebbe essere quell’uomo che osserva i bambini sulla giostra del parco.




mercoledì 24 settembre 2014

Tiziano Fratus, L'Italia è un bosco, Laterza



«In Italia abbiamo l’80 per cento del patrimonio culturale del mondo». Quante volte abbiamo sentito pronunciare questa frase, magari con qualche lieve differenza sulla percentuale? Nei toni più ottimistici, e spesso polemici, si riesce a sfiorare il cento per cento, per recriminare poi l’imperizia con cui la nostra classe politica e burocratica nasconde questi tesori in cantine o dentro cantieri perenni.
In ogni caso, che l’Italia sia meravigliosa e ricca di fascino è un dato di fatto indiscutibile: cattedrali rinascimentali, abbazie, intere città attirano turisti di ogni parte del mondo, come le nostre bellezze naturali. Basti una cifra (precisa, questa volta) come esempio: in Italia sono presenti 50 siti Unesco sui 1007 di tutto il mondo; ovvero cinquanta luoghi così preziosi che l’intera umanità deve impegnarsi per curarli e preservarli.
A far parte di questo raggruppamento non sono solamente le opere d’arte, ma anche il patrimonio naturale italiano, quelle meraviglie della natura per cui l’uomo non può addursi alcun merito, semmai quello di aver lasciato tutto intatto, cosa che troppo poco spesso accade. E tutto ciò senza contare i meravigliosi boschi che colorano e nutrono la nostra penisola.
Quando ho letto, anzi ho spiluccato, gustando come uno zibaldone di pensieri, come una guida turistica e letteraria, L’Italia è un bosco, il mio stupore è cresciuto pagina dopo pagina e la nostra bella e complessa nazione mi è sembrata davvero un’unica grande foresta, interrotta qua e là da paesi, città e laghi.
Ho il privilegio (che non penso di meritare) di abitare fuori dal centro, e con una passeggiata di venti minuti posso ritrovarmi fra gli alberi. Se cammino evitando le strade e le mulattiere, posso percorrere chilometri nei boschi, fino a raggiungere i pascoli d’altura. Eppure, nonostante ami camminare e osservare la natura intorno a me, non avevo mai riflettuto su quanto gli alberi possano dire: la storia degli alberi è la storia del mondo.
Ed è stato Tiziano Fratus, con il suo libro, ad aprirmi una nuova, meravigliosa visuale.
“L’enciclopedia arborea” potrei chiamarla, se volessi imitarlo nella invenzione delle parole che, spiega, è una qualità che ha appreso come poeta e che ora continua ad affascinarlo: coniare parole sbagliate, giocare con i significati.  E con le forme: pini come serpenti e ombrelli, larici dritti come giavellotti o sdoppiati a diapason, tronchi in cui crescono altri alberi, radici divelte dalle tempeste che avvolgono ancora i sassi a cui si ancoravano. Questo è ciò che ci mostra nelle pagine del suo libro, invitandoci ad andare di persona a cercare in tutta Italia i luoghi affascinanti e misteriosi che sono i boschi.
Dunque le foreste del nostro paese come musei a cielo aperto, come forme d’arte, per una promenade culturale che non può non condurre a reminiscenze letterarie, agli autori che prima di noi hanno fatto della natura un rifugio, un paradiso, un tramite con il soprannaturale. San Francesco per primo, Hanry David Thoreau, ma anche Rigoni Stern con i suoi animali selvatici, l'immaginifico Buzzati, e i contemporanei Mauro Corona e Erri De Luca, che dai boschi traggono anche lavoro e piacere.
L’Italia è un bosco è ricco di dati scientifici: altitudini, circonferenze di tronchi, percentuali, età, eppure si legge come un romanzo, cercando di saperne ancora, di scoprire di più. Si va alla ricerca, tra le pagine, di una nuova nazione, di un paese finalmente da scoprire a piedi, con lentezza, e in silenzio, nel rispetto di questa forma di vita che c’era ben prima della nostra nascita e ci sarà certamente quando noi ce ne saremo già andati.

Tiziano Fratus
alla 
Casa dei Libri di Rivalta
giovedì 25 settembre

lunedì 25 agosto 2014

Cathleen Schine, Che ragazza!, Mondadori

Nei libri di Cathleen Schine cerco sempre la sua prosa scoppiettante, il suo stile impeccabile, l’ironia che le permette di rendere spiritosa anche la storia più tragica e angosciante.
Così è stato per Il letto di Alice, o per L’ossessione di Brenda o il più recente Tutto da capo: malattie invalidanti, separazioni dolorose o litigi familiari non portano il lettore alle lacrime e alla sofferenza compassionevole, bensì alla profonda consapevolezza che la vita non è certo facile, ma che vale sempre la pena di viverla con entusiasmo.
In questo suo ultimo romanzo, Che ragazza!, ho ritrovato tutta la magia di questa autrice forse sottovalutata qui in Italia. Dopo il successo di La lettera d’amore, la Schine è stata un po’ messa in disparte e i suoi romanzi non sono più saliti sulle vette delle classifiche.  Le sue tematiche sembrano troppo leggere, i suoi personaggi persone comuni, con problemi banali, mentre è proprio nel loro modo obliquo e totalmente originale di vedere il mondo che danno forza alle vicende, che trascinano lungo le pagine.
Fin, il protagonista di Che ragazza!, è solo un bambino nel 1964, quando si ritrova orfano e deve trasferirsi dalla sua fattoria tranquilla a NewYork, nell’appartamento caotico della sorellastra Lady.
Lei è bellissima e Fin la adora da quando l’ha vista per la prima volta, seduta al bar di quella piazzetta di Capri, le lunghe gambe al sole, i denti splendenti nel sorriso divertito e sfrontato. Quella ragazza dal carattere esuberante, dalla voce melodiosa è tutto per lui, è la sua famiglia; per questo Fin teme di perderla, teme che all’improvviso, così com’è entrata nella sua vita, svanisca di nuovo.
Ma lei lo trascina con sé ovunque, gli fa conoscere i suoi pretendenti, lo assorbe con le sue premure e i suoi strampalati entusiasmi. Gli regala libri a quintali, lo indottrina con sit-in alle conferenze dei movimenti di protesta contro la guerra in Vietnam, non gli nega risposte e tempo. Sebbene il suo carattere esuberante la faccia sembrare sciocca e anche egoista, pian piano la sua intelligenza e la sua sensibilità emergono nel corso del romanzo; la narrazione condotta in terza persona da qualcuno che solo alla fine scopriamo essere un narratore interno, ci svela la vera natura di Lady: non la frivola mangiatrice di uomini, ma la fragile ragazza che ha solo una grande paura. Paura di soffrire, come è accaduto tanto tempo prima, quando aveva scelto di non avere il bambino che portava in grembo; paura di vivere nel desiderio di quella maternità non esaudita, di prendere ancora delle decisioni che le potrebbero causare dolore. Così Lady ripete le sue giornate in modo sempre identico, senza rendersene conto, senza mai decidere nulla per il suo futuro. Finché qualcosa le farà tornare il coraggio di andare avanti, anche a rischio di soffrire ancora.

mercoledì 30 luglio 2014

Davide Longo, Il caso Bramard, Feltrinelli


Ruota tutto attorno alla figura di Corso Bramard questo profondo e coinvolgente poliziesco di Davide Longo.
Corso, che deve il nome ad uno strano patto stipulato tra il padre e lo zio in tempo di guerra, è il protagonista assoluto di tutta la vicenda: è il commissario che vent’anni prima aveva indagato sul caso del killer delle ragazze; è a lui che il killer aveva rapito la moglie e la figlia, costringendolo, devastato e sconfitto, a lasciare la polizia. Ed è ancora Corso a riaprire ora le indagini, mai chiuse nella sua mente, grazie ad uno strano indizio riapparso dal passato che la scientifica non riesce a spiegare.
Eppure ben poco sappiamo del suo aspetto fisico, se non per qualche accenno lasciato cadere qua e là quasi per caso dall’autore. Anche la sua mente è un mistero, che lentamente si rivela, non a cerchi concentrici, ma a tasselli, in un puzzle che il lettore ricostruisce negli stessi istanti in cui si ricompone, pian piano, l’intricato caso di omicidi seriali.  
Fin dalle prime pagine scopriamo che è un solitario e che soffre di insonnia, ma non se ne lamenta e usa le lunghe veglie notturne per riflettere, per leggere e vivere i classici della letteratura, o per salire su una parete di roccia, ascoltando i richiami familiari degli animali notturni. Scopriamo che nella sua vita ci sono poche, pochissime persone importanti e che una di queste è Cesare, l’anziano e schietto proprietario di un bar-trattoria sulle colline piemontesi. L’altra è una collega, che tenta di scuoterlo dall’apatia, senza soffrirne troppo; è un’insegnante, come lo è Corso, che, abbandonata la polizia, ha scelto la strada più semplice dell’insegnamento ed è diventato professore di Italiano e Storia, in una scuola di provincia.
E poi c’è Elena, che ha lasciato in Romania un marito e una speranza, quest’ultima svanita con il primo e i soldi che lei gli mandava per la loro futura casa.
E’ una vita sospesa, quella dell’ex- commissario più giovane d’Italia, che sembra soltanto sopravvivere, in attesa di qualcosa o semplicemente di cadere da una parete, verso l’azzurro lunare del cielo.  Eppure sa che c’è ancora un compito da portare a termine, uno scopo per quei suoi giorni apparentemente tutti uguali, e che forse, una volta raggiunto, ci sarà qualcosa a dare un nuovo senso alla sua esistenza.
Nella sua indagine, naturalmente ufficiosa, non avendo più le credenziali necessarie per portarla avanti, lo accompagnano il commissario Arcadipane, tozzo e sgraziato quanto acuto d’ingegno, e Isa, una poliziotta scontrosa che nessuno vuole come collega.

Davide Longo ci accompagna in questa ricerca del suo protagonista con una prosa accurata e coinvolgente, arricchendo le frasi, in apparenza lineari, di sensazioni; affianca al protagonista Bramard personaggi talvolta appena accennati eppure memorabili, come l’affascinante Madame Gina, o come il viscido Forestale che “teneva la brace della sigaretta nascosta nel cavo della mano, anche se non erano sul ponte di una nave e non c’era un filo di vento”.







Raffaella Romagnolo, Tutta questa vita, PIEMME

Paoletta è brutta, lo sa e cerca di adattarcisi. E’ troppo alta, sgraziata e innanzitutto grassa. Sua madre non manca di ricordarglielo, inseguendola con metri da sarto, bilance elettroniche che calcolano l’Indice di Massa Corporea e soprattutto con elenchi di cibi proibiti. Eppure non è infelice, o almeno non lo era prima del Terribile Scherzo, prima che qualcuno dei suoi compagni postasse quel famigerato video su Facebook. Niente di osceno, intendiamoci, Paoletta è troppo intelligente ed onesta per cadere in simili trappole, anzi, è stata proprio la sua ingenuità a condurla a quell’appuntamento disgraziato.
Per fortuna c’è Richi, il suo fratellino disabile, col quale ha un’intesa così stretta da poter condividere tutto, anche le passeggiate. Spingendo la sedia a rotelle, o aiutandolo a camminare, svicolano dalle strade che la madre sceglie per loro ed entrano nei quartieri “bassi”, dalla parte opposta della villa, alla ricerca di qualcosa che ancor non è chiaro a nessuno dei due.
Ma cosa spinge Paoletta a cercare? Non la voglia di amici: i suoi libri, gli adorati film, Antonio, la governante e la sua vicina fashion sono più che sufficienti. Non certo il desiderio di piacere: Paoletta si crogiola nelle sue idiosincrasie (i tatuaggi, le zeppe, i quiz, le veline…), che la rendono unica e forse non proprio alla moda. E certamente non il desiderio di dare una vita migliore a Richi, che è già felice così com’è.
Forse è la paura di dover esser felice a sua volta, di dover appartenere a qualcosa, che la spinge a muoversi, ad uscire dalle pareti lucide e piene di quadri di valore della sua lussuosa villa. Sente di essere una pecora nera in quella famiglia di splendide donne, ma anche di essere una delle poche con il coraggio di non camuffarsi, di dire ciò che pensa e di alzare le lastre di marmo della sua esistenza, anche a rischio di scoprire un nido di serpi.

Un romanzo all’apparenza leggero, che consiglierò a mia figlia adolescente, che sa quanto è forte il rischio di fare classifiche e di venirne esclusi, ma anche che tutti noi abbiamo le armi necessarie per ignorarle. Armi che la cultura, l’esperienza, il consiglio di adulti fuori dagli schemi le possono dare. Insomma tutta questa meravigliosa vita.





mercoledì 25 giugno 2014

Fabio Geda, Se la vita che salvi è la tua, Einaudi

E’ un inizio dolente, quello con cui Fabio Geda ci porta nella vita di Andrea Luna, il protagonista del suo ultimo romanzo.
Andrea corre per le vie della città: scarta passanti, schiva automobili, suscita per brevi attimi lo stupore di chi, ignaro del motivo che lo spinge a correre, lo osserva saettare fulmineo. L’abbigliamento è quello giusto, pantaloncini e felpa grigia, ma la velocità è irreale, Andrea corre “come per salvarsi la vita”. Senza riflettere ma soltanto percependo lontane sensazioni, l’uomo si getta come una furia in un ospedale, reparto ginecologia. Sua moglie, in una solitaria stanza, lo aspetta, furibonda e disperata: ha perso il loro bambino, da sola.
Da quel momento il dolore si insinua tra loro, rendendo la donna silenziosa e apatica, facendo capire all’uomo che questa è una pena che egli non può sanare, ma può soltanto osservare, assistendo all’isolarsi di quella che pensava la compagna della sua vita.
Un momento della mia presentazione
 alla Casa dei libri
Poi, com’è improvvisamente arrivato, così il dolore si attutisce. Agnese torna alla vita, dedicandosi con impegno accresciuto al suo lavoro e sottolineando così la disparità sociale con il marito, supplente saltuario di Arte e Disegno.
Con partecipazione conosciamo pian piano le delusioni e le sconfitte di Andrea, provando una compassione che ci fa approvare le sue scelte, anche se apparentemente assurde. Così siamo dalla sua parte quando decide di andare a New York, con la motivazione apparente di visitare la mostra “Dutch Golden Age”, ma invece per provare a rivivere quella che era stata la sua esperienza più libera di giovane laureato. L’aperta disapprovazione di Agnese, con il suo rinfacciare la misere entrate economiche del marito, ci sembra una prova di forza che lei deve perdere.
Andrea fugge nella Grande Mela, vive una fascinazione estatica davanti al Ritorno del figliol prodigo di Rembrandt che lo porta a riflettere su se stesso, sul suo essere più simile al fratello maggiore, ingiustamente messo da parte dal pentimento del minore.
Dunque, quando Andrea, quasi per caso, non sale sull’aereo di ritorno, non riusciamo a condannarlo e ancora lo accompagniamo con complicità all’ostello, per un’altra settimana di riflessione, forse di ossessione.
Poi il ritmo accelera e l’uomo che non è riuscito a divenire padre si lascia andare all’apatia totale, all’indifferenza per tutto ciò che lo circonda e per ciò che egli stesso è. Il percorso si fa complesso, la coscienza di Andrea non ci pare più così limpida e cerchiamo di comprendere, attraverso i suoi gesti, quale sia la spinta che lo muove, con l’angosciante sospetto che non ci sia nulla. 


Narrato in terza persona al tempo presente, il romanzo cattura fin dalle prime righe, impedendo al lettore di lasciare Andrea al suo destino.  I cento personaggi che lo affiancano, così sfaccettati nella loro varia umanità, sono l’unico contatto che il lettore ha con un protagonista difficile da disegnare, eppure così simile ad ognuno di noi, nelle sue contraddizioni, nel suo alternarsi di sensi di colpa e vittimismi. La sua vera vita, quella che fin dal titolo sappiamo che egli dovrà salvare, fiorirà solo nelle difficoltà, nel superamento di ostacoli.
Sostenuta da una prosa di alto livello stilistico, la trama si contorce lungo le sensazioni e gli incontri di Andrea, trascinando il lettore nei quartieri poveri di New York, mostrandogli una nuova visione dell’immigrazione clandestina: quella in cui gli immigrati siamo noi.
Fabio firma la prima copia ancor prima della presentazione


lunedì 26 maggio 2014

Elena Bosca, Sweet love, La Corte Editore

è stata gradita ospite a Giaveno 
martedì 10 giugno 
con il suo romanzo
Sweet Love, la ragazza delle torte
Ha presentato Edoardo Favaron

Con lei ha chiacchierato il maestro cioccolatiere
Guido Castagna

Com'è nato il libro?

Torino e il cioccolato.

Sono le 8,30 di una mattina qualunque di inizio estate e Wendy è pigiata nella folla sul tram che sferraglia nelle vie del centro di Torino. Come ogni mattina, da ormai quattro anni, sta andando al lavoro nell’agenzia aDora, Organizzazione Eventi, gestita dall’intraprendente quanto affascinante Dora, appunto.
Wendy sta pensando all’agognato aumento di stipendio e alla promessa di imminente assunzione a tempo indeterminato quando una donna, in evidente stato interessante,  si insinua a fatica in quel pigia pigia. La situazione sarebbe per lei già parecchio complicata, anche senza l’improvviso intervento di un controllore che non accetta alcuna spiegazione per il suo biglietto non timbrato.
E’ un attimo: la nostra Wendy, generosa e impavida, indossa i panni del supereroe e, strappati metaforicamente i bottoni della camicetta, vola in suo soccorso, obliterando un biglietto per lei. Quel che non può immaginare è che da quel semplice gesto di cortesia la sua vita verrà totalmente scombussolata.
«Devi aprire le tue ali, Wendy» le dice la donna, dopo averle afferrato la mano e aver cominciato ad osservarle il palmo come se fosse una mappa del tesoro.
Non male come consiglio, ma come fa quella sconosciuta a sapere il suo nome? Forse è davvero una sensitiva, dunque, perché non tentare?
Così, poco dopo, Wendy si ritrova con un mutuo gigantesco appena acceso, uno storico fidanzato che l’ha appena lasciata e un licenziamento al posto della desiderata promozione.
La tentazione di abbandonarsi a pianti e lamenti è forte, ma non nelle corde della nostra giovane intraprendente. Durante un weekend a casa di suo padre, la necessità le farà riscoprire doti che aveva accantonato per il lavoro e, forse, una nuova strada da percorrere.
Con la sicurezza che l'amicizia di Lara e Maggie le dona, proverà davvero a spiccare il volo, anche a rischio di qualche disastroso atterraggio di fortuna.



domenica 25 maggio 2014

Lorenzo Alessandri, a cura di Concetta Leto, Zorobabel, e Hotel Surfanta, ed. Skira

Avevo in casa ormai da molti mesi il libro Zorobabel, volume di Memorie del pittore Alessandri curato dalla professoressa Concetta Leto. Lo tenevo in un luogo privilegiato del salotto, pronto ad ogni consultazione, impulsiva o ponderata, fulminea, come cedendo ad un capriccio, o lenta, per gustare con la giusta calma più brani. Al suo fianco il meraviglioso Hotel Surfanta, il volume di Skira che contiene le trentatré Camere o Interni, pitture realizzate dall’artista negli anni Ottanta, anch’esso curato dalla Leto in modo “fedele il più possibile al menabò delle Camere lasciatoci da Alessandri”.

Mi capitava, così, di aprire a caso l’uno o l’altro; di osservare i magnifici dipinti o di leggere brani degli scritti che il pittore annotava, con rigorosa attenzione, quasi ogni giorno, creando nella mia mente un’immagine di lui che andava via via chiarendosi.
La mia lettura disomogenea, istintiva, che potrebbe sembrare superficiale, non è però del tutto da condannare: gli scritti stessi sembrano adattarvisi senza problemi. Come spiega la curatrice nella prefazione: “Pensieri e sentimenti si susseguono ricostruendo un profilo di un’anima vissuta con il desiderio di donarsi completamente all’arte”.
Terminata la lettura non credo di aver completato l’immagine di Alessandri, né credo sia possibile a nessuno come non lo è stato forse neanche per lui, ma posso dire di conoscerlo meglio, grazie alla sua scrittura. La figura di questo artista stravagante, misterioso, si andava per me svelando senza perdere in alcun modo parte del fascino che i suoi dipinti provocano in chi li ammira: conoscevo i suoi quadri inquietanti, in cui mostri orrendi vengono affiancati a splendide ragazze nude; dove architetture fatiscenti o rovine fanno da sfondo a sabba infernali, arricchiti da simboli esoterici o da personaggi deformi con espressioni grottesche. Questo era ciò che conoscevo del pittore Alessandri; ben poco, ora che Concetta Leto mi ha mostrato, con Zorobabel, il vero volto dell’artista.
Così ho deciso di scriverne una recensione. Ma il mio campo è la narrativa, la mia materia sono il romanzo e il racconto; dunque perché uno scritto di memorie? Perché non c’è nulla di più narrativo della vita stessa. Un uomo nasce e vive e nella sua esistenza si dipanano, per quanto banale e monotona possa essere, mille trame. Incontrerà personaggi, vivrà passioni, supererà ostacoli o da esso verrà sopraffatto. Allora quanto può esserci di più narrativo del diario di un uomo la cui vita è stata ricchissima ed affascinante?
Molto si è detto su Lorenzo Alessandri, sui lati oscuri, misteriosi della sua esistenza. Vivendo nel suo stesso paese, avendolo conosciuto, sebbene in modo estremamente superficiale, ho potuto vedere il personaggio attraverso lo sguardo sospettoso della gente, che lo ha trasformato in un satanista bizzarro e, forse, pericoloso.
Certamente egli stesso aveva creato attorno a sé, fin dagli anni della Soffitta Macabra, nella quale si riuniva con gli intellettuali suoi amici, un alone misterioso. L’amore per l’esoterismo, per la spiritualità orientale, unito alle sensazioni forti che le deformità umane o dei mostri da lui creati procurano a chi osserva i suoi dipinti, lo hanno fomentato.
Era un uomo curioso e interessato a tutto ciò che è strano; la sua intelligenza aperta e vivacissima era costretta nei dogmi di una famiglia tradizionalista. Il desiderio di evasione e di scoperta era fortissimo: “Tutti cercavamo qualcosa e tutti qualcosa trovammo” scrive di quei primi anni di incontri nella Soffitta Macabra.
Il grottesco, l’esoterico, il misterioso, ma anche il misticismo e l’ascesi sono le spinte che hanno contribuito a fare dell’ uomo un personaggio, una leggenda, a cui la sua arte sottostava, ma sempre senza perdere di vista la dignità umana e la compassione.
“Oggi ho letto un articolo sul Cottolengo” scrive il 25 maggio 1950. “E’ disastroso nella mia anima constatare che io non ho mai fatto niente per i mostri umani, per quegli stessi mostri umani che tanto eccitano la mia fantasia e che disegno con grande passione […]. Devo rinunciare a disegnare sinceramente i miei mostri perché da oggi mi sono imposto un debito di riconoscenza e di amore per questi esseri disgraziati”.

Concetta Leto ha dedicato molti anni ed enormi energie a raccogliere e selezionare materiale per questo volume con l’intento di scoprire il vero volto di Alessandri. Quel che ne emerge è il ritratto di un uomo originale e bizzarro, che amava con tutto se stesso la luna, che adorava la notte, la musica. Un uomo che credeva nell’amicizia e nella collaborazione: in diverse occasioni cercò di riunire gli artisti torinesi, con sodalizi intellettuali, luoghi di incontro e manifestazioni collettive, perché con il loro lavoro potessero arricchire reciprocamente le diverse esperienze. Talvolta prevalse l’individualismo, ma in altri casi il suo carisma agì da catalizzatore, come nel gruppo artistico Surfanta, nel quale radunò artisti suoi coetanei, come l’amico Abacuc.
Grazie ai suoi scritti, scopriamo che quel che noi consideravamo un lato oscuro era invece fonte di stupore e di divertimento, grazie al suo brillante intelletto e al suo spiccato senso dell’umorismo, che rende la sua stravaganza ancor più affascinante.
Nelle pagine di Zorobabel incontriamo insomma un artista vivace e generoso, per cui la vita era una continua scoperta; un maestro che non temeva i confronti e voleva vivere nella pienezza.


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